salve, ho 24 anni e stavo pensando a quando, all’età di 20, andai a lavorare in un’azienda di famigl

25 risposte
salve, ho 24 anni e stavo pensando a quando, all’età di 20, andai a lavorare in un’azienda di famiglia dove mi avevano presa in prova per circa un mese (dicevano loro). andavo solo la mattina per circa un mese e mezzo. ci tengo a precisare che non avevo nessun contratto. dicevano che me lo avrebbero fatto dopo questo famoso mese in cui avrebbero valutato le mie capacità (quindi era lavoro irregolare). mi hanno fatta lavorare per alcuni clienti e poi, un mese e mezzo dopo, mi hanno convocata dicendomi che non ero idonea e che cercavano qualcuno di più esperto. non starò qui a dirvi quanto mi hanno mortificata nel corso di un mese, con smorfie, frecciatine e umiliazioni davanti agli altri dipendenti… dall’alto della mia ignoranza sono andata via da quel posto e basta, ma ora ho ricominciato a pensarci e il fatto che non abbia mai visto un centesimo mi ha lasciata perplessa. faccio mea culpa perché ero davvero ignorante in materia, ma ultimamente mi sono informata e ho scoperto che in realtà avrebbero dovuto retribuirmi anche se non avevo nessun contratto e ancora ero nel cosiddetto “periodo di prova”. potrei sbagliarmi. ne ho parlato con i miei genitori e loro ovviamente mi hanno dato contro, quindi non saprei a chi rivolgermi per capire se ho ragione io oppure se devo affidarmi ancora una volta ai miei.
non mi importa dei soldi. vorrei solo che i miei genitori capissero che ho passato un’esperienza scorretta.
oltre all’ingiustizia subita mi sento molto giù di morale, perché appunto non ho il sostegno dei miei genitori che per me conta più di qualsiasi altra cosa. non mi credono quando gli dico di aver subito frasi provocatorie dai titolari, battute sul lavoro svolto e smorfie di continuo. in genere non hanno mai presa sul serio, fin da bambina, e mi fa soffrire senza che sappia come comportarmi con loro.
forse non è la sede adatta dove parlarne… ma non so a chi altro rivolgermi. grazie a chi di voi mi presterà attenzione per fare chiarezza sull’accaduto. saluti, Gioia
Dott.ssa Silvia Parisi
Psicoterapeuta, Psicologo, Sessuologo
Torino
Gentile Gioia,
grazie per aver condiviso un’esperienza così delicata e dolorosa.

Da ciò che racconta emergono due piani distinti, entrambi importanti. Da un lato c’è l’esperienza lavorativa, che lei ha vissuto come scorretta e umiliante: lavorare senza contratto, senza retribuzione e in un clima svalutante può lasciare segni profondi, soprattutto a 20 anni e in una fase di costruzione dell’identità adulta e professionale. Al di là degli aspetti legali (che competono a un consulente del lavoro o a un sindacato), è comprensibile che oggi, con maggiore consapevolezza, lei senta rabbia, confusione e il bisogno di dare un nome a ciò che ha subito.

Dall’altro lato, e forse ancora più doloroso, c’è la mancanza di riconoscimento emotivo da parte dei suoi genitori. Non sentirsi creduta, né sostenuta, soprattutto quando si è vulnerabili, può riattivare ferite antiche e far sentire “invisibili” o svalutati, come lei stessa descrive accadere fin dall’infanzia. Questo può incidere molto sull’autostima e sul modo in cui oggi lei guarda a sé stessa e alle proprie emozioni.

Il suo bisogno non sembra tanto economico, quanto relazionale e di validazione: essere riconosciuta nella sofferenza e nel fatto che ciò che ha vissuto non è stato “normale” né giusto per lei. Ed è un bisogno legittimo.

Ha fatto bene a chiedere aiuto e a non tenersi tutto dentro. Probabilmente questa esperienza lavorativa ha riattivato dinamiche familiari più profonde che meritano spazio e ascolto. Per questo, anche se questo non è lo spazio per una presa in carico clinica, le suggerisco di approfondire con uno specialista, che possa aiutarla a rimettere ordine tra i vissuti, rafforzare la fiducia in sé stessa e trovare modalità più tutelanti nel rapporto con i genitori.

Resto dell’idea che prendersi cura di ciò che prova oggi sia il primo passo per non continuare a portare da sola un peso che non le appartiene.

Un caro saluto
Dottoressa Silvia Parisi
Psicologa Psicoterapeuta Sessuologa

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Dott.ssa Elisa Oliveri
Psicoterapeuta, Psicologo
Torino
Cara Gioia,
da ciò che scrivi sembra che ciò che ti ha ferito di più sia la mancanza di validazione da parte dei tuoi genitori del tuo sentire e sembrerebbe che vada al di là del singolo evento accaduto presso questa azienda.
Se ti fosse possibile potresti lavorare con uno psicoterapeuta per costruire una tua sicurezza personale che ti faccia validare il tuoi vissuti al di là di ciò che pensano le persone intorno a te. In bocca al lupo per il prossimo lavoro!
Dott.ssa Letizia Turchetto
Psicologo, Psicologo clinico
Ponte di Piave
Gentile Utente, buongiorno. Sono molto dispiaciuta per la situazione che ha passato e per la fatica nell'essere compresi dalla propria famiglia di origine. Posso immaginare non sia semplice, ed è comprensibile che si senta sotto pressione. Nel suo messaggio anticipa che sin da quando era bambina ci sono state difficoltà in merito al sostegno che i suoi genitori le mostravano e che questa sua sensazione di non essere creduta non è quindi una reazione esclusiva della dinamica lavorativa che ha vissuto. Ciò che invece non ha descritto è lei stessa, non ha parlato delle sue competenze, delle sue capacità, della sua volontà di mettersi in discussione, di provare. Potrebbe essere un momento utile per lei, per comprendere più approfonditamente le proprie risorse, cercando di cogliere le ragioni per cui non scrive delle sue competenze e capacità. Consideri che fino ad ora, nonostante l'importanza del sostegno di cui parla, lei stessa ha affrontato le diverse sfide che la vita le ha proposto.
Resto a disposizione. Un caro saluto, Dott.ssa Letizia Turchetto
Buongiorno Gioia, la prima cosa che desidero dirLe è che il Suo racconto è chiaro, coerente e credibile. Non c’è nulla di confuso, esagerato o “immaturo” in ciò che descrive. Quello che ha vissuto è stato realmente un’esperienza scorretta, sia sul piano lavorativo sia su quello umano, e il fatto che oggi Lei la stia ripensando non significa che stia “ingigantendo” le cose, ma che sta finalmente dando parola a qualcosa che allora ha dovuto subire in silenzio.

Dal punto di vista lavorativo, senza entrare in tecnicismi legali, è importante che Lei sappia una cosa fondamentale: il lavoro va retribuito, sempre. Il cosiddetto “periodo di prova” non è mai lavoro gratuito, e soprattutto **non può esistere senza contratto**. Il fatto che Lei abbia lavorato per clienti, svolto mansioni reali e inserite nell’attività dell’azienda rende quella esperienza, di fatto, lavoro a tutti gli effetti. Che poi Lei non chieda oggi i soldi è secondario: il punto non è economico, è etico e di dignità. Su questo, la Sua percezione è corretta.

Ma ciò che colpisce ancora di più, nel Suo racconto, è un altro livello di sofferenza: la mortificazione quotidiana, le smorfie, le frecciatine, le umiliazioni davanti agli altri. Questo non è “valutare una persona in prova”, questo è svalutare. E lascia segni, soprattutto quando si è giovani, inesperti e in una posizione di evidente vulnerabilità. Il fatto che Lei allora se ne sia andata senza fare rumore non è segno di debolezza: è tipico di chi non ha strumenti, non di chi ha torto.

Il dolore più grande, però, sembra arrivare dopo, e arriva da casa. Lei non sta cercando di convincere i Suoi genitori di una questione legale, ma di una cosa molto più profonda: di essere creduta. Di sentirsi dire “ti vedo”, “quello che hai vissuto è stato ingiusto”, “capisco perché ti ha fatto male”. Quando questo riconoscimento non arriva, soprattutto se è una dinamica che si ripete fin dall’infanzia, la ferita si riapre ogni volta. Non essere presi sul serio diventa una ferita identitaria, non un semplice disaccordo.

È comprensibile che oggi Lei si senta giù di morale: non solo per l’ingiustizia lavorativa, ma perché quella esperienza sembra aver confermato una sensazione più antica, quella di non valere abbastanza da essere ascoltata. E questo fa molto più male del mancato compenso.

Il fatto che oggi senta il bisogno di “fare chiarezza” non è per riaprire il passato, ma per rimettere a posto l’immagine di sé. Per dirsi: “non ero io sbagliata, non ero io incapace, non ero io che esageravo”.

Forse, con i Suoi genitori, non riuscirà subito ad ottenere il riconoscimento che desidera. A volte i genitori faticano ad ammettere che una figlia sia stata trattata male, perché significherebbe riconoscere di non averla protetta. Ma questo non invalida la Sua verità.

Lei non è nel posto sbagliato. Qui ha fatto una cosa importante: si è ascoltata. Rimango a disposizione, un saluto.
Dott.ssa Alessia Lapi
Psicologo, Psicologo clinico
Firenze
Salve Gioia,
da quello che scrive sembra che stia ruminando con pensieri tipo “avrei potuto fare, avrei dovuto dire…”: è un modo per cercare di dare un senso e riparare a un’esperienza in cui si è sentita svalutata e impotente.
Detto chiaramente, però, il punto più doloroso oggi forse non è il lavoro in sé né i soldi, ma la mancanza di appoggio dei suoi genitori, qualcuno che riconosca che quella che ha vissuto è stata un’esperienza scorretta e umiliante. Non essere creduta, soprattutto da chi per noi conta di più, fa molto più male dell’ingiustizia iniziale. Ora non è tanto capire chi “ha ragione”, ma dare valore a quello che ha provato e sta provando. La sua sofferenza ha senso, anche senza l’approvazione dei suoi genitori. Riconoscerlo lei per prima è già un passo importante per smettere di colpevolizzarsi e andare avanti.

Un saluto
Dott. Christopher Siddi
Psicologo, Psicologo clinico
Torino
Ciao Gioia, grazie per aver condiviso una parte delicata della tua esperienza. Da quello che racconti emerge non solo una situazione lavorativa poco chiara, ma soprattutto il dolore di non sentirti creduta e sostenuta, che può pesare molto nel tempo. È comprensibile che oggi tu ti senta giù di morale dopo quanto hai vissuto. Un confronto con un professionista potrebbe offrirti uno spazio sicuro per dare valore a queste emozioni e capire come prenderti cura di te.
Un caro saluto
Dott.ssa Giorgia Giustolisi
Psicologo clinico, Psicologo
Viagrande
Salve Gioia,
purtroppo spesso chi ci sta vicino non comprende il nostro malessere passato, ma questo non rende meno reali le sue emozioni o i fatti vissuti.
È fondamentale darsi la possibilità di elaborare quanto accaduto per acquisire nuovi strumenti di consapevolezza e gestire meglio il futuro. Le auguro di intraprendere questo percorso per riscoprire il proprio valore, indipendentemente dal riconoscimento altrui.
un saluto.
Dott.ssa Sara Petroni
Psicologo clinico, Psicologo
Tarquinia
Gentile Gioia,

da quanto racconta, l’esperienza che ha vissuto è stata effettivamente scorretta, sia sul piano lavorativo sia su quello umano. In Italia il cosiddetto “periodo di prova” può esistere solo all’interno di un contratto regolarmente attivato; in assenza di contratto, qualsiasi attività lavorativa svolta configura lavoro irregolare e, come tale, dovrebbe comunque essere retribuita. Il fatto che Lei abbia lavorato per più settimane, svolgendo mansioni concrete e a contatto con clienti, senza ricevere alcun compenso, non rientra in una prassi legittima.

Detto questo, è comprensibile che oggi il punto centrale per Lei non siano i soldi, ma il bisogno di vedere riconosciuto che ciò che ha vissuto non è stato “normale” né giusto. Quando un’esperienza viene sminuita o negata dalle persone da cui ci si aspetta sostegno, come i genitori, il vissuto di ingiustizia tende ad amplificarsi e a trasformarsi in dolore emotivo, sfiducia e senso di non essere creduti. Questo tipo di ferita, soprattutto se presente da tempo nel rapporto familiare, può lasciare un segno profondo sull’autostima e sul modo in cui una persona dà valore a ciò che prova.

Non è fuori luogo parlarne, né è sbagliato cercare un confronto esterno quando in famiglia non ci si sente ascoltati. Un supporto psicologico potrebbe aiutarla a rimettere ordine tra i fatti oggettivi e le emozioni che si sono accumulate, e soprattutto a lavorare sul bisogno di legittimazione e riconoscimento che oggi emerge con forza.

La sua sofferenza merita attenzione, indipendentemente dal fatto che gli altri la comprendano o meno.

Un caro saluto
Dott.ssa Sara Petroni
Grazie per aver condiviso una parte così delicata della tua storia. Da quello che racconti emergono due livelli di sofferenza distinti ma intrecciati: l’esperienza lavorativa scorretta e umiliante e, forse ancora più dolorosa, la mancanza di riconoscimento e sostegno da parte dei tuoi genitori.

Parto da un punto importante: le tue emozioni sono legittime. Il disagio, la rabbia, la confusione e la tristezza che provi oggi hanno senso. Anche a distanza di tempo, certe esperienze non elaborate tornano a farsi sentire, soprattutto quando toccano temi profondi come la dignità, il valore personale e il bisogno di essere creduti.

Dal punto di vista psicologico, ciò che descrivi nel contesto lavorativo non riguarda solo il mancato pagamento, ma un ambiente svalutante, fatto di umiliazioni, frecciatine e mancanza di rispetto. Questo tipo di clima può lasciare segni profondi, soprattutto in una persona giovane, alla prima esperienza, che si affida a chi dovrebbe guidarla. Il fatto che tu oggi ti stia interrogando non indica debolezza, ma crescita e consapevolezza.

Riguardo ai tuoi genitori, comprendo quanto sia doloroso non sentirsi creduta. Quando questo accade ripetutamente fin dall’infanzia, può insinuarsi un dubbio interno: “forse esagero”, “forse non valgo abbastanza”. Questo meccanismo, però, non dice nulla sulla veridicità di ciò che hai vissuto, ma molto sulle difficoltà degli altri nel riconoscere il tuo mondo emotivo. Non essere presa sul serio può ferire quanto, se non più, dell’ingiustizia iniziale.

È importante che tu sappia una cosa: non hai bisogno che qualcuno “certifichi” il tuo dolore perché esso sia reale. Il tuo vissuto merita ascolto anche se non viene validato da chi ti è vicino. A volte i genitori, per paura, rigidità o limiti personali, non riescono a sostenere emotivamente i figli come avrebbero bisogno.

Se senti che questa esperienza continua a pesarti, potrebbe esserti utile parlarne con una persona esterna e competente (come uno psicologo), non perché tu abbia “qualcosa che non va”, ma per avere finalmente uno spazio in cui essere ascoltata senza giudizio e ricostruire fiducia in te stessa e nelle tue percezioni.

Concludo dicendoti questo: non sei sbagliata per aver sofferto, né debole per averci creduto, né in torto per voler chiarezza. Il fatto che tu oggi stia dando un nome a ciò che hai vissuto è già un passo importante verso il rispetto di te stessa.

Un caro saluto.
Alma Magnani - Psicologa
Dott.ssa Veronica Borgato
Psicologo, Psicologo clinico
Piove di Sacco
Buongiorno Gioia,
grazie per aver condiviso la tua esperienza.
Da quanto scrivi emerge un vissuto di sofferenza legato sia all’esperienza lavorativa sia al senso di non sentirti compresa nel tuo racconto. Situazioni di questo tipo possono lasciare confusione, amarezza e un calo del tono dell’umore.
Al di là degli aspetti legali, che richiedono un parere specifico, è importante riconoscere che ciò che hai vissuto ha avuto un impatto su di te. Se senti che questa vicenda continua a pesarti, uno spazio di supporto psicologico può aiutarti a fare chiarezza, elaborare l’esperienza e ritrovare maggiore stabilità.
Dott.ssa Giada Casumaro
Psicologo, Terapeuta, Professional counselor
Rovereto sulla Secchia
Ciao e grazie mille per aver scritto. Deve essere stata un esperienza davvero mortificante e svalutante. Tu ti sei messa in gioco e alla fine l azienda ti ha sfruttato. Purtroppo non essendoci niente di scritto anche il periodo di prova seppure debba essere retribuito non ti puoi appellare perché non ci sono atti che lo dichiarino. D altra parte ognuno di noi ha sbagliato sulla propria pelle e serve come esperienza per stare più attenti o informarsi. Questo però non significa non essere creduti, e mi dispiace che i tuoi genitori non riconoscono le tue abilità o ti sostengano quando sbagli. Penso sia importante fare un lavoro su di sé in cui iniziare a diventare genitori di sé stessi perché più si cresce meno i genitori ci saranno ed è difficile immagino.
Io rimango a disposizione qualora volessi parlarne e approfondire il discorso per fare un lavoro di crescita interiore!
Buona giornata, dott.ssa Casumaro Giada
Gentile Gioia, la ringrazio davvero per aver condiviso una parte così delicata e dolorosa della sua storia. Non è affatto “fuori luogo” parlarne: se sente il bisogno di parlarne è giusto che lo faccia. Da ciò che descrive, l’esperienza lavorativa che ha vissuto a 20 anni è stata profondamente svalutante sotto molti punti di vista. È comprensibile che oggi, ripensandoci con maggiore consapevolezza, emergano diverse emozioni che le segnalano quanto questa situazione l'abbia messa in difficoltà. È stata messa alla prova senza tutele, senza contratto e senza retribuzione, e questo non è corretto né dal punto di vista umano né da quello legale, anche se allora lei non aveva gli strumenti per saperlo. Non è una sua colpa: quando si è giovani ci si affida facilmente a chi dovrebbe sapere e fare le cose nel modo giusto.
Oltre all’ingiustizia lavorativa, colpisce molto il clima che descrive: smorfie, frecciatine, umiliazioni davanti ai colleghi. Essere trattati così può minare profondamente l'idea che si ha di sè, suscitando un senso di inadeguatezza. È normale che un’esperienza del genere lasci strascichi emotivi e che oggi lei si senta ancora ferita e affaticata. Vorrei sottolinearle che, il fatto che l’abbiano allontanata non dice nulla sul suo valore personale o professionale.
Sul piano pratico, se lo desidera, può valutare di rivolgersi a un avvocato del lavoro o a associazioni/sindacati che offrono consulenze gratuite o a basso costo: anche solo per avere una conferma formale di quanto accaduto e fare chiarezza. Questo potrebbe aiutarla a sentirsi meno “nel dubbio” e più legittimata nel suo vissuto.
C’è poi un aspetto emotivo molto importante: il dolore legato alla mancanza di sostegno da parte dei suoi genitori. Sentirsi non creduta, minimizzata o non presa sul serio — soprattutto quando succede fin dall’infanzia — può essere estremamente ferente. È comprensibile che questo la faccia sentire sola e che il loro giudizio pesi più di qualsiasi altra cosa.
Se non l’ha già fatto, può provare a esplicitare chiaramente come si sente, non tanto per convincerli dei fatti, ma per dire loro: “Quello che ho vissuto mi ha fatta stare male e avrei bisogno del vostro supporto”. A volte le persone non colgono la profondità della sofferenza se non viene nominata apertamente; non possono leggerci nel pensiero, e chiedere aiuto non è una debolezza.
Se però sente che questo supporto, al momento, non può arrivare dai suoi genitori, è importante chiedersi se ci siano altre figure significative: amici, partner, familiari, persone di fiducia che possano offrirle ascolto e validazione.
Infine, se sente il bisogno di elaborare questa esperienza, di ricostruire fiducia in sé e di lavorare sul senso di svalutazione che si porta dietro, rivolgersi a una psicologa/o può essere uno spazio sicuro e utile per farlo, con i suoi tempi e senza giudizio.
Lei ha vissuto qualcosa di scorretto e doloroso, e il suo sentire è legittimo. Non si lasci scoraggiare da chi non riesce — o non sa — riconoscerlo.
Rimango a disposizione, se lo desidera.
Dr. Francesco Rossi
Psicologo, Psicologo clinico
Ozzano dell'Emilia
Salve, da quello che descrive, i vissuti di sconforto, ingiustizia, delusione e rabbia sono forti; suggerirei un percorso psicologico con uno Psicologo Clinico o uno Psicoterapeuta che possano aiutarla ad elaborare e gestire al meglio questi vissuti emotivi per adesso e per il futuro.
Saluti.
Dr. Francesco Rossi.
Dott.ssa Laura Federici
Psicologo clinico, Psicologo
Scandolara Ravara
Buongiorno Gioia,
mi dispiace davvero tanto per la pessima esperienza che ha avuto.
Da quello che racconta, mi sembra di percepire più rabbia e dispiacere rispetto all'accaduto con i suoi genitori piuttosto che per l'esperienza lavorativa.
Provi a parlare (se non l'ha già fatto) apertamente con i suoi genitori rispetto ai sentimenti che prova quando non si sente supportata da loro.
Se l'ha già fatto invece, mi sento di dirle questo: è più che normale che lei si aspetti di ricevere supporto da loro, ma purtroppo a volte i genitori hanno dei limiti di cui magari non sono nemmeno consapevoli, hanno a loro volta delle difficoltà. Secondo me varrebbe la pena provare a lavorare sull'accettazione di questa situazione per avere un po' della serenità che merita.
Le mando un caloroso saluto.
Dott. GILBERTO FULVI
Psicologo, Psicologo clinico
Milano
Buonasera Gioia, mi spiace non poterti aiutare a capire se i periodi di prova vanno pagati o meno. L'unica cosa che credo di poterti dire con certezza è che, lavorando senza contratto di alcun tipo, eri in una situazione non protetta da assicurazione oltre che irregolare. Per avere risposte più chiare in merito puoi cercare in un portale simile a "MioDottore" ma in cui poter porre la tua domanda ad avvocati del lavoro. Come psicologo posso offrirti il mio aiuto per i tuoi sensi di colpa, in merito alla tua scelta fatta in passato, e sulle tue ferite nel rapporto con i tuoi. Leggendoti sento un senso di ingiustizia e di abbandono ma anche di rifiuto e umiliazione. Sento anche tristezza mista a rabbia nel tuo racconto, anche le emozioni sono tue e potrei sbagliarmi. A questo serve il dialogo clinico, a capire meglio l'altro e dare risposte più utili. Per questo, se quello che vuoi, più che recuperare i soldi, è recuperare la fiducia e il sostegno dei tuoi ti suggerisco di contattare me o qualche altro collega. Se senti forte questa necessità, forse c'è da lavorare anche un po' sulla fiducia in te stessa e sull'auto-sostegno, per assicurarti di trovare in te stessa ciò che non sempre il mondo sarà disposto a darti. Soddisfare questa mancanza interna ti permette di acquisire una posizione esistenziale più sicura e meno bisognosa dell'altro. Parlare da questa posizione cambia anche le tue comunicazioni con l'esterno e le risposte che ricevi, risultando più solida e credibile, anche agli occhi dell'altro. Spero di averti aiutato in qualche modo. Non esitare a contattarmi anche durante questo periodo di feste natalizie. Potrebbe essere un bel regalo da fare a te stessa e anche alla relazione con i tuoi.
Dott. Sergio Borrelli
Psicologo, Psicologo clinico
Tradate
Buonasera, Gioia.
Direi che questa è la sede adatta, perché lei parla molto di suoi vissuti, e i vissuti si raccontano allo psicologo.
Perciò benvenuta.
E le rilancio anche che potrebbe essere arrivato il momento di approfondire questi vissuti.
In ogni caso la sua domanda: io andrei presso una sede sindacale, ma ancora di più, presso un patronato ACLI.
Dott.ssa Marianna Mansueto
Psicologo, Psicologo clinico
Torino
Buonasera,
riguardo alla questione legale non sono certamente io la figura professionale a cui rivolgersi (sarebbe sicuramente più adatto un avvocato), quindi non mi esprimerò in merito. Ma riguardo invece a al suo vissuto, il non sentirsi presa sul serio e supportata dalla sua famiglia ecc mi sentirei di consigliarle di iniziare un percorso psicologico o psicoterapeutico, che possa aiutarla a risolvere questi nodi con la sua famiglia (esternamente se possibile o almeno internamente qualora non lo fosse).
Io ovviamente resto a disposizione se sentisse di volerlo fare.
Cordiali saluti,

dott.ssa Marianna Mansueto
Dott. Vincenzo Capretto
Psicologo, Psicologo clinico
Roma
Gentile Gioia,
da quello che racconti emerge un’esperienza che sembra averti lasciato un segno profondo, non solo per quanto riguarda l’aspetto lavorativo, ma soprattutto sul piano emotivo e relazionale. Il modo in cui descrivi quel periodo fa pensare a una situazione in cui ti sei sentita messa alla prova, svalutata e poco tutelata, in un momento della vita in cui si è ancora molto esposti e desiderosi di essere riconosciuti. È comprensibile che, ripensandoci oggi, tu senta confusione e bisogno di dare un senso a ciò che è accaduto.
Accanto al tema dell’ingiustizia subita sul lavoro, sembra esserci qualcosa di ancora più doloroso: la sensazione di non essere creduta e sostenuta dai tuoi genitori. Quando dici che per te il loro appoggio conta più dei soldi, fai capire quanto questo bisogno di riconoscimento sia centrale e quanto la loro posizione possa riattivare una ferita che senti presente fin dall’infanzia. Ti sei mai chiesta che effetto ha su di te, oggi, il sentirti nuovamente messa in dubbio proprio dalle persone da cui vorresti protezione?
Per il futuro, potrebbe essere utile distinguere due piani: da una parte il bisogno di fare chiarezza su quanto è successo, anche solo per te stessa; dall’altra il modo in cui ti rapporti ai tuoi genitori quando senti che la tua esperienza viene minimizzata. Forse il punto non è tanto convincerli, quanto capire di cosa hai bisogno tu per sentirti valida e legittimata, anche quando l’altro non riesce a offrirti subito comprensione.
Il fatto che tu stia cercando informazioni, facendo domande e chiedendo confronto indica una crescita e una maggiore consapevolezza rispetto a quella ragazza di vent’anni. Forse questo può diventare una base da cui partire per tutelarti di più nelle esperienze future, sia nel lavoro sia nelle relazioni, dando spazio a ciò che senti senza sminuirlo.
Un caro saluto.
Dott.ssa Ilaria De Pretto
Psicologo, Psicologo clinico
Roma
Cara Gioia, quello che hai vissuto è stato scorretto e il tuo malessere è comprensibile. Le umiliazioni subite e il non essere stata riconosciuta, soprattutto dai tuoi genitori, possono ferire profondamente e lasciare segni anche a distanza di tempo. Il fatto che tu oggi senta il bisogno di fare chiarezza non significa che tu stia esagerando, ma che stai cercando di dare valore alla tua esperienza. Non essere creduta non vuol dire non avere ragione: il tuo dolore merita ascolto e rispetto.
Dott.ssa Angela Borgese
Psicologo, Psicologo clinico
Gravina di Catania
Salve Gioia,quello che la fa soffrire oggi non è tanto il mancato compenso, quanto il non essere stata riconosciuta: né sul lavoro, né ora dai suoi genitori. L’esperienza che racconta è stata oggettivamente scorretta sul piano lavorativo, ma ciò che più segna è il ripetersi di una posizione che lei conosce bene: parlare, raccontare ciò che ha vissuto, e non essere creduta.
In poche parole, potremmo dire che lei si trova da tempo nel posto di chi non viene preso sul serio, e questo lascia una ferita profonda, più ancora dell’ingiustizia subita. Il dolore che sente oggi nasce dal fatto che quella esperienza ha riattivato qualcosa di antico: sentirsi svalutata, messa in dubbio, invisibile.
Non è sbagliata nel voler dare un nome a ciò che ha vissuto. Il punto ora non è convincere i suoi genitori, ma riconoscere lei per prima la propria verità, senza aspettare che arrivi dall’Altro.
Un percorso psicologico potrebbe aiutarla proprio a uscire da questa posizione ripetitiva e a trovare una voce che non dipenda più dall’essere creduta o meno.
Un caro saluto.
Ciao Gioia,
grazie per aver condiviso una parte così delicata della tua storia. Da quello che racconti, non emerge solo una questione lavorativa, ma soprattutto un’esperienza di svalutazione e di mancato riconoscimento che può lasciare tristezza, soprattutto quando non si sente di non ricevere sostegno dalle persone importanti per noi. Il fatto che oggi tu senta ancora il bisogno di fare chiarezza è comprensibile e legittimo. Al di là degli aspetti pratici, sembra che ciò che più ti pesa sia non sentirti creduta.

Se senti che questa esperienza continua a farti stare male, parlarne in uno spazio di ascolto dedicato potrebbe aiutarti a dare valore a ciò che hai vissuto.

Se lo desideri, io sono disponibile per un colloquio conoscitivo con te, per capire come poter stare meglio. Un caro saluto, Dott.ssa Alessandra Corti
Dott. Andrea Boggero
Psicologo, Psicologo clinico
Genova
Buonasera Gioia, la ringrazio per aver scritto con tanta chiarezza e sincerità. Quello che racconta merita attenzione, perché non parla solo di un’esperienza lavorativa scorretta, ma soprattutto di una ferita emotiva che sembra riattivarsi ogni volta che sente di non essere creduta o sostenuta dalle persone per lei più importanti. È comprensibile che, a distanza di anni, questo episodio torni a farsi sentire. Quando si è giovani e alla prima esperienza, ci si affida facilmente a chi appare più esperto, soprattutto se si tratta di un’azienda strutturata o di persone adulte che parlano con sicurezza. Il fatto che oggi lei riconosca che quella situazione non fosse corretta non la rende ingenua, ma più consapevole. All’epoca ha fatto quello che poteva con le informazioni e le risorse che aveva. Questo è un punto importante, perché spesso la sofferenza attuale nasce da un giudizio molto duro verso se stessi, come se ci si rimproverasse di non aver saputo difendersi. Da ciò che descrive emerge un contesto in cui non solo non è stato riconosciuto il suo lavoro, ma è stata anche svalutata come persona, attraverso umiliazioni, frecciatine e atteggiamenti che lasciano il segno. Esperienze di questo tipo possono intaccare l’autostima e far nascere un senso di ingiustizia profondo, che non riguarda tanto il denaro, quanto il bisogno di sentirsi rispettata e legittimata nel proprio vissuto. Il fatto che lei dica chiaramente che non le importano i soldi, ma che desidera essere capita, è molto significativo. Il dolore che prova oggi sembra amplificato dal mancato sostegno dei suoi genitori. Quando chi dovrebbe proteggerci e darci fiducia minimizza o mette in dubbio ciò che raccontiamo, la ferita diventa doppia. Da un lato c’è l’esperienza negativa subita, dall’altro la sensazione di non essere vista, ascoltata, creduta. Se questo schema si ripete fin dall’infanzia, è naturale che riemerga con forza proprio nei momenti di vulnerabilità. Non essere presi sul serio può far nascere l’idea di valere meno, o di dover sempre dimostrare che il proprio dolore è legittimo. È importante distinguere due piani. Uno è quello dei fatti, che lei oggi sta cercando di comprendere con maggiore lucidità. L’altro è quello emotivo, che riguarda il bisogno di riconoscimento e di alleanza affettiva con i suoi genitori. Anche se loro faticano a vedere la situazione dal suo punto di vista, questo non invalida ciò che lei ha vissuto. Le emozioni non hanno bisogno di prove per essere reali. Il fatto che lei si senta ferita, arrabbiata o delusa è già di per sé un dato importante. Forse, più che convincere i suoi genitori su chi abbia ragione o torto, potrebbe essere utile provare a dare valore a ciò che sente, indipendentemente dalla loro reazione. Quando il bisogno di approvazione è molto forte, ogni negazione esterna rischia di far crollare l’equilibrio interno. Imparare, gradualmente, a riconoscere come legittima la propria esperienza può aiutarla a non dipendere totalmente dal giudizio altrui, anche se questo percorso richiede tempo e delicatezza. Lei non è fuori luogo nello scrivere qui. Sta cercando uno spazio in cui il suo vissuto venga accolto senza essere sminuito, e questo è un bisogno sano. Ciò che ha attraversato merita rispetto, così come merita rispetto la giovane donna che oggi prova a fare chiarezza, non per rivalsa, ma per ritrovare dignità e fiducia in se stessa. Resto a disposizione. Dott. Andrea Boggero
Dott.ssa Stefania Militello
Psicologo, Psicologo clinico
Sassari
Gentile Gioia,
da ciò che descrive emerge un’esperienza lavorativa spiacevole e poco rispettosa, sia sul piano umano che su quello organizzativo. Anche senza contratto formale, il lavoro svolto avrebbe dovuto essere regolarizzato e retribuito, e le modalità di trattamento che riporta sembrano essere state svalutanti e dolorose. È comprensibile che oggi si senta ferita e incompresa, soprattutto dal punto di vista familiare: il mancato riconoscimento da parte dei suoi genitori può amplificare il senso di solitudine e di dubbio.
Se desidera un chiarimento oggettivo sulla questione lavorativa, potrebbe rivolgersi a un consulente del lavoro o a un patronato gratuito: riceverebbe informazioni attendibili e indipendenti, utili per distinguere i fatti dalle sensazioni. Per il resto, il disagio che racconta ha radici emotive profonde, legate non solo all’episodio lavorativo ma anche al bisogno di sostegno e ascolto. Un percorso personale con uno psicologo potrebbe aiutarla a dare valore alla sua esperienza, rafforzare la fiducia in sé e affrontare il dolore del mancato riconoscimento da parte dei suoi genitori. Un caro saluto.
Dott.ssa Caterina Lo Bianco
Psicologo, Psicologo clinico
Palermo
Gentile Gioia,
la ringrazio per aver condiviso un’esperienza così delicata e dolorosa. Quello che descrive merita attenzione e rispetto, sia dal punto di vista umano sia da quello relazionale.
Parto da un primo punto, importante per fare chiarezza e validare ciò che ha vissuto:
anche se all’epoca non aveva un contratto, il lavoro svolto è comunque lavoro. Il cosiddetto “periodo di prova” esiste solo all’interno di un contratto regolare e deve essere retribuito. Far lavorare una persona per settimane, affidarle clienti e poi interrompere il rapporto senza compenso non è una prassi corretta. Questo non lo dico per spingerla ad azioni legali (lei stessa dice che il denaro non è il punto), ma perché è fondamentale che lei sappia di non essere stata “ingenua” o “in difetto” come persona, bensì inserita in una situazione scorretta.
Detto questo, mi sembra che la ferita più profonda non sia legata al lavoro in sé, ma a ciò che quell’esperienza ha riattivato:
• la mortificazione,
• il sentirsi svalutata,
• e soprattutto il non essere creduta dalle persone da cui avrebbe avuto più bisogno di sostegno, cioè i suoi genitori.
Dal punto di vista sistemico–relazionale, ciò che colpisce è una continuità: lei stessa dice che “in genere non mi hanno mai presa sul serio, fin da bambina”. Questa esperienza lavorativa sembra essersi inserita in una storia relazionale già esistente, confermando un copione doloroso: quando Gioia soffre o segnala un’ingiustizia, il suo vissuto viene minimizzato o messo in discussione.
È comprensibile che questo la faccia sentire molto giù di morale. Quando i genitori non riconoscono il dolore dei figli, il messaggio implicito che passa non è solo “stai esagerando”, ma spesso “non sei affidabile nel sentire ciò che senti”. Questo, nel tempo, può minare profondamente l’autostima e la fiducia in sé.
Vorrei dirle con chiarezza una cosa: le frasi provocatorie, le smorfie, le umiliazioni davanti agli altri non sono “sensibilità eccessiva”, ma micro-violazioni ripetute della dignità personale. Il fatto che i suoi genitori non le riconoscano non le rende meno reali.
Forse oggi la domanda non è tanto “chi ha ragione, io o i miei genitori?”, quanto:
come posso smettere di cercare continuamente una validazione che, da loro, storicamente, faccio fatica a ricevere?
Questo non significa rinunciare al rapporto, ma iniziare lentamente a spostare il baricentro: imparare a fidarsi del proprio sentire, anche quando non viene confermato dall’altro. È un percorso che spesso richiede uno spazio dedicato, protetto, dove poter rimettere insieme le esperienze passate e dare loro un significato nuovo.
Ha fatto bene a scrivere e a chiedere chiarezza. Non è “fuori luogo”, non è “esagerata” e non è sola nel sentire ciò che sente.
Se lo desidera, un percorso psicologico potrebbe aiutarla non solo a elaborare quell’episodio lavorativo, ma soprattutto a lavorare sul rapporto con i suoi genitori e sul modo in cui oggi incide sul suo benessere emotivo.
Le mando un caro saluto e le auguro di poter, passo dopo passo, dare sempre più valore alla sua voce.
Rimango a disposizione per qualsiasi approfondimento.
Dott.ssa Caterina Lo Bianco – Psicologa ad orientamento Sistemico-Relazionale
Dott. Dario Martelli
Psicologo clinico, Psicologo, Psicoterapeuta
Torino
Buonasera, mi sembra che il centro della sua domanda sia il rapporto con i suoi genitori dove lei sta osservando che ci sono aspetti che si ripetono. Rispetto al lavoro mi sembra proprio che lei abbia subito, detta così, una situazione al limite dove lei ha delle buone ragioni per lamentarsi. Per quanto riguarda il rapporto con i suoi genitori la strada mi sembra quella di farsi aiutare con una terapia psicologica. Se ritiene sono disponibile anche online. Buona serata! Dario Martelli

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