Ho 20 anni e sono in terapia da uno psicologo da più di 1 anno. Ho capito in questo periodo di terap

24 risposte
Ho 20 anni e sono in terapia da uno psicologo da più di 1 anno. Ho capito in questo periodo di terapia che è tutta la vita che combatto con comportamenti anomali/ disfunzionali nei miei confronti principalmente, ma anche nei confronti degli altri. Ho sempre avuto paura di non essere “normale” ma più il tempo passa più mi rendo conto che no, alcune cose non le pensano/fanno tutti, anzi (in passato mi aveva sempre dato conforto credere che tutti avessero pensieri intrusivi o ossessivi di tanto in tanto e via dicendo). Non so davvero se ho un disturbo specifico oppure no, non so se serva saperlo. Vorrei solo trovare una spiegazione. So che tra gli psicologi si “diffida” delle diagnosi, perché non è quello il punto, giusto? Ma, da paziente, come si può fare ad andare avanti senza una spiegazione? Credo che sia per questo che le diagnosi danno conforto, ci incasellano in una schiera di persone che in qualche modo ci assomigliano. Insomma, ci si sente meno soli. Premettendo che di queste cose ne parlo già con un professionista, gli altri cosa ne pensano?
Dott.ssa Simona Bisconti
Psicologo, Psicologo clinico
Torino
Buongiorno, capisco la necessità di avere una diagnosi, una "etichetta", lei la chiama una spiegazione. Forse quello che sta cercando è una risposta a perché le è successo questo, perché soffre, chi è veramente lei. Trovare un senso a ciò che ci accade è una delle più grandi risorse che ha l'essere umano per affrontare questa vita, che è spesso imprevedibile e spesso incomprensibile. Mi sembra che lei stia cercando aiuto, conforto, e il fatto di essere andato da un professionista, che possa davvero sostenerla nel suo percorso per stare meglio, è già un grande atto di coraggio e un passo importante per prendersi cura di sé. Lei si sta già prendendo cura di sé. Alcune domande non hanno una risposta univoca, né semplice, alcune richiedono molto tempo per trovare una risoluzione. Lei sta scrivendo la sua vita adesso, ha appena 20 anni e ha tempo ed energie per farlo. Ha già conosciuto molto dolore, ma ha anche trovato la forza per reagire e per costruirsi una vita che sente più autentica e più gratificante. Avere una etichetta sulla testa forse potrebbe limitarla in questo percorso, perché diventerebbe la risposta a tutto. Forse, può darsi la libertà di trovare il suo proprio senso alla sua storia passata e la libertà di aprirsi nuove possibilità per la sua vita futura, con tutto il tempo, l'entusiasmo e la fatica che servono. E se cerca una schiera di persone che le assomiglino, forse se le può scegliere lungo il percorso, in base alle esperienze che la nutrono e che la fanno stare bene. Le auguro buona fortuna.

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Dott. Leonardo Santoni
Psicologo, Psicologo clinico
Firenze
Buongiorno,

capisco che il pensiero che altre persone provino le stesse cose (cosa più facile se si condivide una diagnosi) possa essere un conforto. Tuttavia, la diagnosi molto spesso può essere una "trappola" per paziente e terapeuta: dal punto di vista del terapeuta si rischia di incasellare una persona in una diagnosi e trattarla rivolgendosi unicamente al sintomo; mentre per il paziente il rischio è quello di "diventare" la sua diagnosi.
Ogni sintomo ha una sua storia, sviluppo, e soprattutto un significato, e come tale, è estremamente intimo e personale, l'obiettivo della terapia non è quindi levarlo come un medico può togliere un sintomo organico, ma comprenderlo, capire perché è lì e a cosa serve al paziente, ed aiutarlo a integrare o sostituire con strategie più efficaci per far fronte al dolore dal quale il sintomo dovrebbe "proteggere".

Ti auguro una buona giornata.
Dott.ssa Arianna Moroni
Psicoterapeuta, Psicologo
Trieste
Gent.Utente, comprendo il suo desiderio di trovare una spiegazione a ciò che vive, è un bisogno umano, che può dare conforto e far sentire meno soli. Le diagnosi, in alcuni casi, offrono proprio questo, un senso di riconoscimento e appartenenza.
Allo stesso tempo, comprendere come funzionano certi pensieri o comportamenti può essere persino più utile che sapere come si chiamano. E questo tipo di consapevolezza, che Lei sta già coltivando, è un passaggio fondamentale nel percorso di crescita personale. Che cosa sente che potrebbe aiutarla, oggi, a dare significato alla sua esperienza, al di là di una definizione precisa?
Sta facendo un lavoro importante. Continui a darsi fiducia. Un cordiale saluto, AM
Dott.ssa Angelica Guido
Psicologo, Psicologo clinico
Perugia
Gentile utente, quello che scrive tocca un punto molto importante: il bisogno di dare un nome a ciò che si vive, di trovare una spiegazione che permetta di sentirsi meno soli. È vero che le diagnosi possono offrire un senso di appartenenza e di chiarezza, ma non sono l’obiettivo principale. Più che definire “che cosa ha”, è fondamentale comprendere “come lei funziona” nel suo modo unico di sentire, pensare e relazionarsi.
Il fatto che riconosca la presenza di comportamenti o pensieri che la fanno sentire “divers*” non significa necessariamente essere “anormali”, ma indica un vissuto che merita attenzione e ascolto. La terapia serve proprio a dare forma e senso a queste esperienze, a costruire un filo che le renda comprensibili all’interno della sua storia di vita, più che a incasellarle in un’etichetta.
Può essere utile considerare che le spiegazioni non si riducono solo a un nome diagnostico: possono nascere anche dal riconoscere i propri schemi emotivi, i propri modi di reagire e le origini di certi vissuti. È attraverso questo lavoro che si costruisce un senso di continuità e di comprensione di sé, che permette di andare avanti senza sentirsi persi. In questo percorso non è sol*: la condivisione con il suo terapeuta resta lo spazio privilegiato, ma il bisogno che esprime – quello di trovare significato – è del tutto legittimo e fa parte del processo terapeutico stesso.
Dott. Francesco Damiano Logiudice
Psicologo, Psicoterapeuta, Psicologo clinico
Roma
Salve, mi spiace molto per la situazione che descrive poichè comprendo il disagio che può sperimentare e quanto sia impattante sulla sua vita quotidiana. Ritengo fondamentale che lei possa richiedere un consulto psicologico al fine di esplorare la situazione con ulteriori dettagli, elaborare pensieri e vissuti emotivi connessi e trovare strategie utili per fronteggiare i momenti particolarmente problematici onde evitare che la situazione possa irrigidirsi ulteriormente.
Credo che un consulto con un terapeuta cognitivo comportamentale possa aiutarla ad identificare quei pensieri rigidi, disfunzionali e maladattivi che le impediscono il benessere desiderato mantenendo la sofferenza in atto e possa soprattutto aiutarla a parlare con se stesso utilizzando parole più costruttive.
Credo che anche un approccio EMDR possa esserle utile al fine di rielaborare il materiale traumatico connesso ad eventi del passato che possono aver contribuito alla genesi della sofferenza attuale.
Resto a disposizione, anche online.
Cordialmente, dott FDL
Dott. Luca Vocino
Psicologo clinico, Psicologo
Trezzano Rosa
Buongiorno gentile Utente, quello che lei descrive è un passaggio molto comune e delicato all’interno di un percorso psicoterapeutico, soprattutto in giovane età, quando la ricerca di una spiegazione chiara e rassicurante assume un ruolo centrale. La domanda che si pone, cioè se sia davvero necessario avere una diagnosi per poter andare avanti, tocca un punto fondamentale del lavoro psicologico.

Le diagnosi possono certamente offrire sollievo, perché forniscono un’etichetta che dà l’idea di ordine, di appartenenza e di non essere soli in ciò che si vive. Allo stesso tempo, però, hanno anche dei limiti: rischiano di irrigidire la comprensione della persona dentro una categoria, trascurando le sfumature e la sua unicità. Per questo motivo, molti psicoterapeuti tendono a usare la diagnosi come bussola, utile a orientarsi, ma non come punto d’arrivo né come definizione esaustiva della persona.

Lei ha colto un aspetto molto importante: più che incasellarsi in un’etichetta, ciò che conta è comprendere i propri vissuti, i propri meccanismi, le proprie modalità di relazione, così da poterli trasformare e rendere la vita più funzionale e soddisfacente. Non è affatto sbagliato desiderare una spiegazione, perché fa parte del bisogno umano di dare senso a ciò che si prova. Ma la vera spiegazione spesso non è “il nome del disturbo”, bensì la narrazione che ciascuno riesce a costruire su di sé con l’aiuto del terapeuta, trasformando il dolore in qualcosa di comprensibile e quindi più gestibile.

Continui a portare queste riflessioni nel suo percorso, perché già il fatto di interrogarsi così profondamente indica che sta facendo un lavoro significativo su di sé. Non è segno di debolezza, ma di coraggio e desiderio autentico di conoscenza.

Se dovesse avere bisogno di ulteriori informazioni o di intraprendere un percorso mi trova a disposizione,
Dott. Luca Vocino
Gentile paziente,
Quello che lei dice è molto corretto e mi consente di fare un affondo su questo tema delicato della restituzione delle diagnosi. E' vero quello che afferma: le diagnosi servono più a noi professionisti per orientarci nella cura piuttosto che al paziente per stare meglio. Ma ha ragione anche quando dice che le diagnosi offrono un'immagine stabile che aiuta a incasellarci e a sentirci meno soli, a trovare i nostri simili. Allora perché tra molti di noi professionisti c'è questo accordo (in linea generale, bisogna poi sempre vedere caso per caso) nel non restituire una diagnosi? Perché sappiamo quanto quell'immagine, seppur momentaneamente pacificante, sia illusoria e che anzi rischi addirittura di arrecare un danno. Quale? Che la persona smetta di fare la cosa più preziosa per sé stesso/a nel percorso psicoterapeutico, ovvero che smetta di esplorare; potrebbe infatti decidere di aggrapparsi a quell'immagine illusoria e smettere di continuare indagare la propria essenza profonda. Questo lo reputerei un fallimento perché ognuno di noi è unico e sarebbe riduttivo venire schiacciati all'interno di un termine tecnico. E poi le lancio una considerazione come spunto per i suoi validi ragionamenti: e se forse quello che ci definisce maggiormente non è quello che abbiamo, come può essere un nome, ma l'atto che ogni giorno compiamo nel farci delle domande anche quando non troviamo poi necessariamente le risposte?
Dott. Roberto Corbo
Dott.ssa Veronica Savio
Psicologo, Psicologo clinico
Medolla
Gentile utente,
capisco molto bene ciò che descrive: il desiderio di trovare una spiegazione chiara a ciò che si vive è del tutto comprensibile. Una diagnosi, infatti, può offrire proprio questo: un “nome” a cui collegare le proprie difficoltà e la sensazione di non essere soli, perché esistono altre persone che vivono esperienze simili.
Allo stesso tempo, come lei ha intuito, in psicologia non sempre la diagnosi è l’obiettivo principale. Questo perché più che “incasellare” una persona, ciò che davvero fa la differenza è comprendere insieme quali sono i suoi vissuti, le sue risorse e come migliorare la qualità della sua vita.
Il fatto che lei stia già affrontando questi dubbi con il suo terapeuta è molto importante: può condividere con lui/lei proprio questa esigenza di avere una “cornice esplicativa”, in modo da trovare il giusto equilibrio tra etichette diagnostiche e percorso personale di crescita e comprensione.
In altre parole: la diagnosi può essere utile, ma non è l’unica strada per sentirsi compresi e sostenuti.
Rimango a disposizione per qualunque chiarimento.
Dott.ssa Veronica Savio
Dott.ssa Virginia Romita
Psicologo, Psicologo clinico
Bari
Gentile,
è molto significativo il percorso che sta descrivendo: il fatto che sia già in terapia e che abbia maturato consapevolezze importanti sul proprio modo di funzionare è un segnale di crescita e di impegno verso sé stesso.

Capisco bene il bisogno di “dare un nome” a ciò che si vive. Le diagnosi, in effetti, hanno questa funzione: permettono di comprendere, di riconoscere di non essere soli, di trovare una cornice che dia senso alle proprie esperienze. Allo stesso tempo, la psicologia clinica ricorda che ogni persona è unica e che una diagnosi non può esaurire la complessità della sua storia, delle sue emozioni e delle sue risorse.

Per questo, spesso il lavoro terapeutico si muove su due piani:
• ricercare spiegazioni, che possono anche includere un inquadramento diagnostico, utile a orientarsi e a sentirsi meno soli;
• lavorare sul cambiamento concreto, cioè su ciò che oggi crea sofferenza e su come affrontarlo in modo nuovo, indipendentemente dall’etichetta diagnostica.

Il suo pensiero è molto profondo: la diagnosi può dare conforto, ma non è l’unica via per sentirsi compresi. In terapia, infatti, ciò che conta di più è costruire significati, riconoscere i propri schemi e trovare modi più funzionali per stare con sé stessi e con gli altri.

Ha ragione: parlarne con il proprio terapeuta è la cosa più importante, ma anche condividere queste riflessioni al di fuori può essere utile per normalizzare il proprio vissuto e sentirsi parte di una comunità di persone che, come lei, cercano spiegazioni e strumenti per stare meglio.

Non si tratta quindi di scegliere tra “avere o non avere una diagnosi”, ma di trovare insieme un linguaggio che le permetta di capire sé stesso e di vivere con maggiore serenità.
Caro utente,
è molto positivo il fatto che ne parli già con il suo psicologo. Ciò che mi sento di dirle per rispondere alla sua domanda è: perchè è importante per lei sapere cosa ne pensano gli altri? E per altri chi intende? E questi altri, cosa potrebbero pensare?
Se per lei è così importante sentirsi meno sola e simili ad altri, questo potrebbe anche essere collegato al suo bisogno di sapere il pensiero degli altri come se il loro giudizio potesse in qualche modo influenzare qualcosa in lei perchè importante.
Provi ad approfondire ulteriormente l'argomento con il suo psicologo: potrebbe essere motivo di una nuova scoperta del significato di sè.
Un caro saluto
Dott.ssa Claudia Fontanella
Salve, ciò che descrive è molto comune tra chi affronta un percorso psicologico approfondito, la ricerca di una spiegazione o di una “categoria” in cui inserirsi nasce spesso dal desiderio di sentirsi meno soli e di dare un senso a pensieri e comportamenti che appaiono strani o dolorosi, questo senso di appartenenza a un gruppo di persone che condividono esperienze simili può effettivamente dare sollievo.
È vero che molti psicologi tendono a non porre l’accento sulle diagnosi, perché il loro obiettivo principale è lavorare sui vissuti, sulle strategie e sui comportamenti, indipendentemente dall’etichetta clinica, questo non significa però che una diagnosi non possa avere valore, soprattutto come strumento di comprensione e legittimazione del proprio sentire.
Se il bisogno di avere una spiegazione è forte, può essere utile discuterne apertamente con il proprio psicologo, chiarendo che non si tratta di voler essere “incasellati” in modo rigido, ma di cercare una cornice che renda più comprensibile ciò che sta vivendo, molte persone trovano conforto nel sapere che non sono sole e che altri hanno vissuti simili, anche senza che questo cambi il percorso psicologico di fondo.
In sostanza, il percorso continua anche senza una diagnosi precisa, ma riconoscere e parlare del bisogno di capire “perché” le cose accadono può essere parte integrante del lavoro terapeutico e può ridurre la sensazione di isolamento emotivo. Un caro saluto
Gentile utente,
non tutti i professionisti diffidano delle diagnosi, che talvolta possono essere utili, tuttavia credo che abbia ben descritto i meccanismi che spesso portano le persone alla ricerca di una spiegazione facilmente comprensibile, che incornicia il malessere definendolo e qualche volta chiudendo la strada di una maggiore comprensione.
E' comprensibile questa ricerca da parte di chi vive una situazione di malessere, ma nonostante i sintomi possano essere accomunati o simili, arrivano per ciascuno dalla propria storia personale, emergendo quindi da una soggettività cui non si può prescindere perché altrimenti si rischierebbe di ridurre la complessità che ognuno si porta dentro in quanto soggetto.
Le auguro davvero che il lavoro che sta facendo su se stesso la porti dunque ad ottenere le SUE personali risposte ai suoi sintomi, facendole comprendere meglio che origine hanno e superando la sua sofferenza.
Un caro saluto
Dott.ssa Lucrezia Farese
Psicologo, Psicologo clinico
Fragneto Monforte
Salve. La sua riflessione è estremamente profonda e tocca un punto molto sentito da chi è in terapia. Magari alcuni psicologi danno priorità alla comprensione della persona piuttosto che ad un'etichetta diagnostica, ma è altrettanto vero che per molti pazienti, una diagnosi può offrire sollievo, dare un senso al proprio vissuto e favorire un senso di appartenenza e validazione. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderare una spiegazione più chiara: è umano volersi comprendere meglio. Ne parli apertamente con il suo terapeuta—potreste trovare insieme un equilibrio tra il bisogno di significato e il percorso di cambiamento. Resto a disposizione, dott.ssa Farese Lucrezia
Dott.ssa Sandra Petralli
Psicologo, Psicoterapeuta, Psicologo clinico
Pontedera
Salve, è vero, molte scuole psicoterapeutiche, in particolare quelle a orientamento umanistico, tendono a non ridurre l’esperienza della persona a una diagnosi, perché ogni vissuto è unico e va accolto nella sua complessità. Ma è altrettanto vero che, per molte persone, dare un nome a ciò che sentono, aiuta a non sentirsi alieni. La diagnosi, quando non diventa un'etichetta rigida, può dare un primo contenitore alle emozioni, un punto di partenza per comprendersi. E può anche creare un senso di appartenenza, come dice lei, che è spesso ciò che davvero cura. Parlarne in terapia è già un passo importante, ma se sente che il bisogno di capire “chi è” e “cosa ha” non è accolto o validato a sufficienza, può serenamente condividerlo con il suo psicologo psicoterapeuta. Alcuni percorsi, come l’EMDR o l’analisi bioenergetica, lavorano anche senza diagnosi formali, ma sempre con profonda attenzione alla storia della persona e al suo bisogno di senso. Saluti, dott.ssa Sandra Petralli
Dott. Andrea Boggero
Psicologo, Psicologo clinico
Genova
Buonasera, quello che descrive tocca un tema molto importante e delicato, che riguarda il bisogno umano di dare un nome e un senso alle proprie esperienze interiori. È naturale cercare una spiegazione, soprattutto quando ci si confronta con pensieri o comportamenti che sembrano diversi da quelli degli altri. Le diagnosi, in questo senso, possono avere un ruolo rassicurante perché aiutano a collocare la propria sofferenza in una cornice riconosciuta, a non sentirsi isolati e a intravedere la possibilità di un percorso condiviso con altre persone che vivono qualcosa di simile. Allo stesso tempo, però, la psicologia e la psicoterapia, soprattutto nell’approccio cognitivo-comportamentale, pongono molta attenzione non tanto all’etichetta in sé quanto al modo in cui i pensieri, le emozioni e i comportamenti si intrecciano nella vita quotidiana e condizionano il benessere personale. Non si tratta di negare il valore di una diagnosi, ma di considerare che essa non esaurisce mai la complessità di una persona. Una diagnosi può indicare una direzione, può facilitare l’accesso a cure adeguate e ridurre il senso di solitudine, ma non deve diventare l’unica lente con cui guardarsi. Ciò che conta, nella pratica clinica, è capire come le sue difficoltà si manifestano concretamente, quali situazioni le fanno più paura, quali pensieri si attivano e come questi influenzano le sue azioni. Questo tipo di esplorazione le permette di sviluppare strategie nuove e più funzionali, anche indipendentemente dal nome che diamo al disturbo. È comprensibile che in alcuni momenti prevalga l’incertezza e che la mancanza di una definizione chiara possa farla sentire smarrita. Tuttavia, il percorso che sta facendo con il suo terapeuta le sta già consentendo di conoscersi meglio e di riconoscere alcuni schemi che la accompagnano da tempo. Questa consapevolezza è uno strumento prezioso e, spesso, più utile della sola etichetta diagnostica. Guardi alla terapia come a un luogo dove imparare a costruire un senso personale rispetto a ciò che vive, senza la pressione di dover per forza trovare una risposta definitiva. Riconoscere di voler comprendere meglio se stessi è già un segno di coraggio e di maturità. La spiegazione che cerca potrebbe non arrivare solo attraverso una definizione, ma anche attraverso il percorso stesso di consapevolezza e cambiamento che sta portando avanti. Resto a disposizione. Dott. Andrea Boggero
Dott.ssa Aurora Ciervo
Psicologo, Psicologo clinico
Roma
Gentile Utente,
mi permetta innanzitutto di ringraziarla per aver condiviso con noi - in modo così vivido e puntuale - questa riflessione, resa ancor più stimolante dalla sua giovane età.
Dal mio punto di vista, l’idea di normalità è un “significante vuoto”: non esiste una norma universale che stabilisca cosa sia “sano” o “malato” in senso assoluto. Esiste, invece, un rapporto singolare che ciascuno di noi intrattiene con la vita e con il mondo che ci circonda.
Frequentemente, ciò che ci agita sono interrogativi come: “Che cosa vuole l’Altro da me? Come dovrei essere per essere accettato, riconosciuto, amato?”. Talvolta, la sofferenza nasce proprio dallo scarto tra chi si pensa di dover essere e ciò che, invece, si è.
Quando si ricerca - legittimamente - una “spiegazione”, il rischio è credere che questa debba arrivare dall’esterno, sotto forma di diagnosi, di etichetta o di appartenenza a una categoria clinica. Ma la spiegazione che conta non è universale, bensì personale e singolare.
Ha ragione: le diagnosi possono offrire conforto perché ci situano, permettono di dare una sorta di “nome al sintomo” e questo sembra placare l’angoscia. Tuttavia, questo conforto è spesso solo immaginario, poiché nessuna etichetta dice davvero chi siamo. Una diagnosi può essere utile - anche clinicamente, certo - ma non basta per spiegare la nostra storia personale e il nostro rapporto unico con il desiderio, con noi stessi e con gli altri.
La spiegazione che cerca non arriverà come una definizione univoca, ma come qualcosa che si costruisce nel tempo: non si tratta di sapere “a quale categoria apparteniamo”, ma di trovare il nostro modo unico di fare i conti con ciò che ci abita.
Il fatto che lei stia già seguendo un percorso è centrale: in fondo, il compito di un terapeuta non è fornire risposte, ma mettere il soggetto nella posizione di produrre le proprie.
Quello che sente - la paura di essere “diverso”, l’angoscia di non capire - è proprio il materiale prezioso del suo percorso: è lì che si nasconde qualcosa del suo desiderio.
Le auguro un buon lavoro.
Un caro saluto,
A.C.
Dott.ssa Alessia D'Angelo
Psicologo, Psicologo clinico, Psicoterapeuta
Milano
Caro utente, dal mio punto vi sta l'etichetta diagnostica può dare senso da certi punti di vista, ma è solo un etichetta. Incasellarsi è come riconoscersi quella diagnosi come parte integrante di sé. Ma non siamo condannati a far parte di quella categoria di persone solo perché stiamo attraversando una sofferenza che si manifesta in sintomi specifici. Di cosa ha bisogno? Come mai le darebbe conforto un nome? Sicuramente da un senso ma non una spiegazione la spiegazione dei suoi sintomi sta dentro di lei, nella sia storia e nei sui vissuti di apprendimento e nel suo presente. Continui con la sua terapia e provi a cercare le sue spiegazioni. Cordialmente Dott.ssa Alessia D'Angelo
Dott.ssa Filomena Drammis
Psicologo, Psicologo clinico
Rosta
Concordo sul fatto che le diagnosi possono dare una spiegazione e fare sentire meno "strani e/o sbagliati". L'importante è non cadere nell'idea che la diagnosi definisca la persona e che sia tutto riconducibile a schemi di funzionamento tipici o, ancora peggio, usare la diagnosi per altri scopi (es. da un estremo biasimarsi e dall'altro giustificare i propri comportamenti con la diagnosi). Tenendo in considerazione questi punti penso che sia un personale diritto poter sapere che nome eventualmente poter dare a un funzionamento. Le consiglierei di parlare apertamente di queste sue esigenze con il suo psicologo. Un caro saluto
Dott.ssa Anna Faragò
Psicologo, Psicologo clinico
Saronno
Caro utente,
grazie per la domanda posta.
L'effettuare diagnosi in realtà è una delle competenze di ogni psicologo regolarmente iscritto all'albo e richiedere una diagnosi è un diritto del paziente.
Ricevere una diagnosi, ovvero una spiegazione del problema appunto, non significa necessariamente incasellare, quanto piuttosto comprendere. La diagnosi, inoltre, non si esaurisce dietro una semplice denominazione, ma richiede una comprensione e una spiegazione approfondita. Una stessa denominazione, infatti, può assumere caratteristiche differenti a seconda della storia di vita di ciascuno. Spetta al singolo professionista effettuare tale percorso di comprensione specifica con il proprio paziente. Effettuare un buon percorso diagnostico, dunque, può dare conforto proprio perchè aiuta a comprendere in modo più chiaro.

Rimango a disposizione per ulteriori chiarimenti.
Dott.ssa Anna Faragò
Dott.ssa Marzia Mazzavillani
Psicologo, Psicologo clinico, Professional counselor
Forlì
Buonasera, tua riflessione tocca uno dei dilemmi più sentiti da chi intraprende un percorso di conoscenza di sé e questo oscillare tra il bisogno di normalizzare le proprie esperienze e la graduale consapevolezza della propria unicità, è un passaggio evolutivo importante e, paradossalmente, molto "normale" nel percorso di crescita psicologica.

Il tuo bisogno di una spiegazione è comprensibile e legittimo perchè gli esseri umani sono naturalmente orientati alla ricerca di significato , e quando si tratta della propria mente, questa ricerca diventa ancora più intensa. La diagnosi, quando appropriata, può effettivamente fornire quel senso di appartenenza e comprensione che descrivi , non sei solo nel sentirlo.

Tuttavia, il tuo psicologo probabilmente mantiene una certa cautela diagnostica per ragioni profonde. Una diagnosi troppo precoce o rigida può talvolta diventare una "gabbia identitaria" che limita la percezione di sé e le possibilità di cambiamento. È come se la persona iniziasse a vedere se stessa solo attraverso quella lente, perdendo la complessità e la fluidità della propria identità.

Esistono però vie di mezzo. Molti colleghi lavorano con quello che chiamiamo "comprensione funzionale", identificare pattern specifici nei tuoi pensieri e comportamenti senza necessariamente etichettarli immediatamente. Questo approccio può offrirti quella spiegazione che cerchi mantenendo aperte le possibilità di evoluzione.

Il fatto che tu stia già elaborando queste questioni in terapia è prezioso. Forse potresti esplorare con il tuo terapeuta proprio questo bisogno di comprensione, condividendo apertamente il tuo desiderio di avere più chiarezza sui tuoi pattern mentali. Non è insolito che pazienti e terapeuti arrivino insieme a una "mappa" del funzionamento psicologico della persona che, pur non essendo necessariamente una diagnosi formale, fornisce quella cornice esplicativa che stai cercando.

Ricorda che il percorso di conoscenza di sé è graduale, e quello che stai vivendo, questa oscillazione tra paura e curiosità verso la propria diversità , è parte integrante del processo di crescita e accettazione. Un cordiale saluto
Dott.ssa Marzia Mazzavillani
Psicologa clinica - Voice Dialogue - Mindfulness - Dreamwork
Dott. Marco Lenzi
Psicologo, Psicologo clinico
Milano
Buongiorno,
Dalla sua domanda emerge un bisogno di sicurezza, dato dalla diagnosi.
La diagnosi può dare un orientamento, certamente. Serve a capire di cosa si tratta. Tuttavia, allo stesso modo, può essere un'arma a doppio taglio: infatti, c'è il rischio di identificazione della persona con la malattia e ciò è pericoloso. Tale processo di etichettamento fa in modo che la persona si senta un tutt'uno con la malattia, come se questa facesse parte del suo Sè.
Ciò deve essere evitato. Lo scopo della psicoterapia è quello di riuscire a comprendere il problema e inserirlo in una cornice di senso utile al paziente, facendo in modo che egli lo affronti con maggiore consapevolezza nella strada verso il benessere.
Per aiutare il paziente a districarsi nella situazione, potrebbe essere utile dargli delle parole chiave semplici da capire a cui possa fare riferimento. In altri termini, dare una spiegazione sintetica della malattia semplificando per concetti di base. E' importante anche, ad esempio, dire alla persona che "vive un problema" o "ha un problema" ma non che lei "sia il problema". Così la patologia è qualcosa di esterno all'individuo.
Resto a disposizione per ulteriori informazioni e domande. Cordiali saluti
Dott.ssa Ilaria De Pretto
Psicologo, Psicologo clinico
Roma
Quello che stai vivendo è un passaggio molto comune per chi intraprende un percorso terapeutico: man mano che aumenta la consapevolezza di sé, emergono anche più domande, più dubbi, e a volte più dolore. È normale che ci sia il bisogno di “dare un nome” a ciò che provi: una diagnosi può sembrare una bussola, un contenitore che aiuta a ridurre l’incertezza. Sapere di non essere l’unico, di non essere “sbagliato”, ma parte di un gruppo di persone che condividono vissuti simili, può dare un grande sollievo.
Allo stesso tempo è vero che, in terapia, le etichette non sono sempre centrali. Questo non significa che non abbiano un valore, ma che da sole non raccontano chi sei. Una diagnosi può descrivere un insieme di sintomi, ma non spiega la tua storia, il tuo modo unico di viverli, le risorse che hai costruito. Per questo alcuni terapeuti scelgono di non insistere troppo sulla definizione diagnostica, concentrandosi invece sul funzionamento quotidiano, sui bisogni e sugli obiettivi concreti.
Dal punto di vista del paziente, però, il desiderio di una spiegazione è legittimo. Cercare un senso, una narrazione che permetta di collocare ciò che vivi, non è un capriccio: è un bisogno umano di ordine e appartenenza. Si può andare avanti anche senza una diagnosi formale, lavorando sulla comprensione dei propri schemi e dei propri modi di reagire, ma questo non toglie che il desiderio di una cornice resti importante.
Il punto, forse, è trovare un equilibrio: la diagnosi non come etichetta rigida che ti definisce, ma come strumento in più per sentirti meno solo e per orientarti. E parallelamente, lasciare che il lavoro terapeutico continui a restituirti la complessità della tua persona, che va ben oltre qualsiasi categoria clinica.
Quello che stai facendo già adesso — condividere queste domande, parlarne col tuo psicologo, cercare confronto — è parte del processo. È un segno che stai costruendo il tuo senso, passo dopo passo, e che non stai semplicemente subendo ciò che vivi.
All’interno della psicologia esistono diversi approcci, alcuni più centrati sulla diagnosi, altri meno. È vero che non sempre una sofferenza rientra perfettamente in una categoria del DSM, ma può comunque avere caratteristiche che si sovrappongono a determinati disturbi. Ad esempio, nell' approccio cognitivo-comportamentale è utile lavorare insieme al paziente per identificare i sintomi, capire se si collocano all’interno di una diagnosi specifica o se presentano tratti comuni, così da inquadrare meglio la sofferenza. Questo processo permette non solo di comprenderla più a fondo, ma anche di riconoscere che non si è soli: molte persone condividono esperienze simili, pur manifestando sintomi diversi. Basti pensare che, all’interno della stessa diagnosi come il disturbo ossessivo-compulsivo, possono esserci pazienti molto differenti tra loro, perché i criteri diagnostici includono aspetti vari e non sempre presenti tutti insieme. Per questo, se il paziente lo sente importante, può essere molto utile avere una diagnosi o un inquadramento diagnostico: dà un senso di orientamento, normalizza l’esperienza e permette poi di concentrarsi, in modo collaborativo, su come intervenire e migliorare la qualità di vita.
Dr. Leopoldo Tacchini
Psicologo, Psicologo clinico
Figline Valdarno
Gentile.. quello che Lei afferma è falso. Una parte degli psicologi si disinteressa delle diagnosi, ma a mio avviso è un grave errore. Ci sono interi testi universitari, c'è la psicometria, la psicodiagnostica, la psicopatologia.. sono materie d'esame. Come si effettua la diagnosi? Dopo una anamnesi accurata si procede alla somministrazione di un test di personalità, in genere l' MMPI, se si inizia una psicoterapia. Ci sono altri tipi di diagnosi, ad es. sull'efficienza della memoria, della lettura, ecc. Quindi molti di noi riteniamo una grave inadempienza omettere questa fase. Ad esempio dal profilo possono emergere appunto tendenze ossessive, timidezza, instabilità delle emozioni, ecc. Tutti elementi che posso sfuggire al colloquio. Cordialmente

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