Apprezzo sinceramente il vostro ascolto e il semplice pensiero di dedicare anche solo un momento a q
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Apprezzo sinceramente il vostro ascolto e il semplice pensiero di dedicare anche solo un momento a questo lungo racconto.
Ho 29 anni e ho conseguito la laurea triennale e magistrale in Psicologia. Dopo, mi sono iscritta a un Master in Risorse Umane e ho iniziato a lavorare a Milano. Inizialmente credevo che quella sarebbe stata la mia strada, ma mi sono rapidamente resa conto che, sebbene fossi affascinata dal mondo aziendale, mancava quell’umanità e quel senso di ascolto che considero fondamentali. Le persone venivano trattate come numeri. Così, ho deciso di licenziarmi e di intraprendere un tirocinio professionalizzante in un'altra azienda a Milano, con l’obiettivo di sostenere l’esame per l’abilitazione e diventare Psicologa.
In quel periodo, stavo anche affrontando una delusione amorosa con un ragazzo di Milano. Al tirocinio mi regalavano libri sul benessere psicologico/amore per starmi accanto, ma non avevo voglia di leggerli, troppo orgoglio di mezzo. Durante i giorni di smart working, mi limitavo a muovere il mouse, senza mangiare particolarmente e senza uscire. L'amore “idealizzato” che avevo vissuto mi aveva segnato così profondamente che una sera, sotto l’effetto dell'alcool, ho causato un incidente gravissimo con un taxi che portava due ragazze mentre ero alla guida.
In quel momento, mi sentivo distante e fredda, come se l’incidente non fosse realmente accaduto a me. Ero distaccata, le ragazze gridavano, io ero in una sorta di calma apparente, ero consapevole della gravità ma gestii la situazione come fossi un passante, non coinvolta emotivamente.
In ospedale ero un automa, volevo solo tornare a casa con il referto dell'ospedale. Ho trascorso una notte insonne, non riuscivo a chiudere occhio, vegliavo sulle ragazze stese in barella pensando al mio ex, maledicendolo ingenuamente.
Questi eventi mi hanno spinta a lasciare Milano rapidamente, nei 9 giorni successivi all’incidente ho sostenuto un trasferimento per tornare a Napoli, nel mio "nido". Ero senza lavoro, ma lontana da quella città che ho odiato. Nel primo anno senza occupazione, ho sostenuto l'esame di abilitazione, ottenendo il massimo dei voti. Ero orgogliosa. Ho iniziato a frequentare una scuola di inglese, mi piaceva tantissimo, ero brava e riuscii a diventare anche fluente.
Nel secondo anno, mi sono iscritta a un master in coaching con sede negli Stati Uniti per sfidarmi un po’, non volevo perdere l’inglese e mi piaceva il concetto di potenziale inespresso. Le sessioni settimanali erano emotivamente intense, e spesso mi trovavo a piangere mentre parlavo dei miei blocchi e della mia paura di non essere "abbastanza". Il mio sogno è sempre stato quello di aiutare gli altri, e immaginavo progetti ambiziosi, ma faticavo a trovare il primo passo e procrastinavo, inventando scuse. Volevo iniziare un progetto imprenditoriale, ma ho sempre evitato di concretizzarlo per paura e per insicurezza.
In quel periodo, ho conosciuto un ragazzo della mia città, non uscivo con un ragazzo da un anno. All'inizio ero diffidente e per l'ansia piansi prima del nostro primo appuntamento (non avevo voglia di innamorarmi). Col tempo abbiamo affrontato molte difficoltà, soprattutto perché non riuscivo a fidarmi di nessuno, nonostante non mi avesse mai dato motivo di farlo. Ho intrapreso un percorso terapeutico che mi ha aiutato a riconoscere e gestire le mie paure e ansie. Le cose sono migliorate, ma non del tutto, avverto costantemente un forte timore di “tradimento”, di “essere abbandonata” ancora, un esempio è stato quando lui è andato in viaggio con gli amici per un compleanno, io non riuscivo a dormire e mi sentivo sopraffatta dall’ansia, con tremori e paranoie incontrollabili, contavo i minuti prima di ogni sua risposta, quasi un attacco di panico. Gliene ho parlato, lui in questo mi supporta e mi rassicura sempre. Ma vorrei imparare a non vivere nell’ansia, dormire quando è fuori con i suoi amici. Fidarmi.
Conseguito il master coaching in USA, mi sono resa conto di volermi avvicinare a degli aspetti più clinici perché avevo delle mancanze tecniche tipo “Come curiamo l’ansia?” “Come riconosciamo i traumi profondi?” e ho deciso di iscrivermi a una scuola di specializzazione in psicologia cognitivo-comportamentale, con l'idea che questo mi avrebbe dato gli strumenti e il coraggio per avviare la mia attività, una delle docenti durante un colloquio di ammissione mi disse “Lei ha muri quasi invalicabili di sfiducia, dovrà lavorarci se vorrà esercitare la professione”. La scuola inizierà a novembre 2026, un weekend al mese. Tuttavia, mi trovo persa e senza obiettivi in questo lasso di tempo e sto mettendo in discussione anche la scelta di iniziare la scuola stessa (mi chiedo, “Mi piacerebbe davvero approfondire le storie personali dei pazienti per aiutarli a ritrovare una condizione di benessere?” Mi dico sì, amo il prossimo. Ma oggi non ne ho le forze e non so quindi se potrò un indomani). Nel dubbio ho iniziato a inviare candidature a Milano e sono stata selezionata per una posizione tanto ambita, ma ho declinato l’offerta perché non voglio tornare a vivere lì e allontanarmi dal mio ragazzo. L'ultima volta che sono tornata a Milano ho pianto tutta la notte ricordando l'incidente, e non so se riuscirei a gestire anche la distanza, data la mia ansia. Ma come potete ben vedere, mi lancio nelle cose senza fare una valutazione reale delle ripercussioni o delle conseguenze. Come se volessi solo mettermi in movimento.
Mio fratello vive a Milano, lavora e cresce, e ogni volta che parliamo, mi ritrovo a piangere dopo la chiamata, chiedendomi se mi manca più lui o la versione di me stessa che viveva lì. Gli sono stata molto accanto, soprattutto nel periodo in cui stava scoprendo la sua identità sessuale. Oggi è il mio più grande orgoglio, come sorella maggiore non potrei essere più felice per lui. Sta facendo carriera e a volte penso “la mia versione è lì e sta facendo il suo dovere in lui”.
La verità è che sono io quindi che non so cosa stia facendo, dove stia andando e perché prendo certe decisioni. Ho un profondo senso di smarrimento e vuoto. Sembro indossare una maschera sociale, sempre sorridente e disponibile, mentre dentro mi sento in caduta libera. Sono sempre “la più bella”, “la più socievole ed estroversa”, “colei che gestisce” e ama chiunque incontri, dai più piccoli ai più grandi, sempre pronta a supportare chiunque abbia bisogno di una mano, pronta a raddrizzare gli altri con tanto coraggio e audacia perché le persone valgono, sono più di ciò che vediamo. Mi basta rassicurare una donna in gravidanza e vederla sorridere per star meglio. Abbracciare il mio ragazzo quando è stanco per sentirmi a casa.
Da sei mesi, mio padre ha reso la nostra famiglia molto benestante grazie ai suoi investimenti. È un grande punto di riferimento per me e quando mi vede in difficoltà, mi incoraggia a sorridere e a non trasformare una condizione favorevole in un disagio. Mi esorta a mettermi in proprio e a lavorare subito come coach psicologa, per dedicarmi alla mia passione, mi motiva e crede in me, ma io non ci credo più nel percorso e benché meno in me. Non ho più quella “fame” che avevo quando vivevamo in condizioni diverse. Se devo far qualcosa, lo faccio oggi per “status”, per “hobby”. E non mi piace, non è l’educazione che abbiamo avuto quando eravamo piccoli, fatta di sacrifici e anche impegni. Non riesco a sentire le farfalle nello stomaco.
Non riesco a credere nei libri che leggevo, nelle eroine dei racconti, nelle pagine del mio diario, e nemmeno nelle mie stesse idee, che sembrano cambiare repentinamente. Non mi sento ispirata da nulla e anche il mio intuito è silenzioso. È stato difficile per me scrivere qui; ogni volta che ci penso, piango. Mi sento delusa da me stessa, e parlarne mi provoca ansia. Mi sento come se fossi bloccata da tre anni. Dov'è finita la me che correva per le strade di Milano, che lavorava, leggeva e scriveva? Dov'è finita la me che si innamorava delle scritte sui muri, dei bigliettini dei Baci Perugina, dei fiori? Che leggeva articoli di psicologia per informarsi e pagine di crescita personale per migliorarsi? Quella persona sembra estinta. Mi sento come una massa grigia che si obbliga ad andare in palestra per mantenere un bel fisico, come se fossi solo la "figlia di papà" che può oziare a tempo indeterminato, ma non è così. Quando mi chiedono se lavoro, mento dicendo di sì.
Mi piacerebbe capire con il vostro supporto se vi è tra queste righe un filo conduttore che riuscite a percepire, l’origine di questo caos silenzioso in cui vivo, vorrei tanto rifletterci e provare a guidarmi, smettere di forzarmi. Trovare una motivazione autentica e smettere di vivere come se ci fosse un vetro tra me e le cose. Ricevere qualche spunto di qualsiasi tipo, perchè io ci provo da sola ma non riesco a tirare le fila, mi perdo nei discorsi e le mie risposte sono sempre “Non lo so” o troppo troppo ipotetiche. Non ho gli strumenti per analizzarmi a fondo.
Grazie di Vero cuore,
una Psicologa
Ho 29 anni e ho conseguito la laurea triennale e magistrale in Psicologia. Dopo, mi sono iscritta a un Master in Risorse Umane e ho iniziato a lavorare a Milano. Inizialmente credevo che quella sarebbe stata la mia strada, ma mi sono rapidamente resa conto che, sebbene fossi affascinata dal mondo aziendale, mancava quell’umanità e quel senso di ascolto che considero fondamentali. Le persone venivano trattate come numeri. Così, ho deciso di licenziarmi e di intraprendere un tirocinio professionalizzante in un'altra azienda a Milano, con l’obiettivo di sostenere l’esame per l’abilitazione e diventare Psicologa.
In quel periodo, stavo anche affrontando una delusione amorosa con un ragazzo di Milano. Al tirocinio mi regalavano libri sul benessere psicologico/amore per starmi accanto, ma non avevo voglia di leggerli, troppo orgoglio di mezzo. Durante i giorni di smart working, mi limitavo a muovere il mouse, senza mangiare particolarmente e senza uscire. L'amore “idealizzato” che avevo vissuto mi aveva segnato così profondamente che una sera, sotto l’effetto dell'alcool, ho causato un incidente gravissimo con un taxi che portava due ragazze mentre ero alla guida.
In quel momento, mi sentivo distante e fredda, come se l’incidente non fosse realmente accaduto a me. Ero distaccata, le ragazze gridavano, io ero in una sorta di calma apparente, ero consapevole della gravità ma gestii la situazione come fossi un passante, non coinvolta emotivamente.
In ospedale ero un automa, volevo solo tornare a casa con il referto dell'ospedale. Ho trascorso una notte insonne, non riuscivo a chiudere occhio, vegliavo sulle ragazze stese in barella pensando al mio ex, maledicendolo ingenuamente.
Questi eventi mi hanno spinta a lasciare Milano rapidamente, nei 9 giorni successivi all’incidente ho sostenuto un trasferimento per tornare a Napoli, nel mio "nido". Ero senza lavoro, ma lontana da quella città che ho odiato. Nel primo anno senza occupazione, ho sostenuto l'esame di abilitazione, ottenendo il massimo dei voti. Ero orgogliosa. Ho iniziato a frequentare una scuola di inglese, mi piaceva tantissimo, ero brava e riuscii a diventare anche fluente.
Nel secondo anno, mi sono iscritta a un master in coaching con sede negli Stati Uniti per sfidarmi un po’, non volevo perdere l’inglese e mi piaceva il concetto di potenziale inespresso. Le sessioni settimanali erano emotivamente intense, e spesso mi trovavo a piangere mentre parlavo dei miei blocchi e della mia paura di non essere "abbastanza". Il mio sogno è sempre stato quello di aiutare gli altri, e immaginavo progetti ambiziosi, ma faticavo a trovare il primo passo e procrastinavo, inventando scuse. Volevo iniziare un progetto imprenditoriale, ma ho sempre evitato di concretizzarlo per paura e per insicurezza.
In quel periodo, ho conosciuto un ragazzo della mia città, non uscivo con un ragazzo da un anno. All'inizio ero diffidente e per l'ansia piansi prima del nostro primo appuntamento (non avevo voglia di innamorarmi). Col tempo abbiamo affrontato molte difficoltà, soprattutto perché non riuscivo a fidarmi di nessuno, nonostante non mi avesse mai dato motivo di farlo. Ho intrapreso un percorso terapeutico che mi ha aiutato a riconoscere e gestire le mie paure e ansie. Le cose sono migliorate, ma non del tutto, avverto costantemente un forte timore di “tradimento”, di “essere abbandonata” ancora, un esempio è stato quando lui è andato in viaggio con gli amici per un compleanno, io non riuscivo a dormire e mi sentivo sopraffatta dall’ansia, con tremori e paranoie incontrollabili, contavo i minuti prima di ogni sua risposta, quasi un attacco di panico. Gliene ho parlato, lui in questo mi supporta e mi rassicura sempre. Ma vorrei imparare a non vivere nell’ansia, dormire quando è fuori con i suoi amici. Fidarmi.
Conseguito il master coaching in USA, mi sono resa conto di volermi avvicinare a degli aspetti più clinici perché avevo delle mancanze tecniche tipo “Come curiamo l’ansia?” “Come riconosciamo i traumi profondi?” e ho deciso di iscrivermi a una scuola di specializzazione in psicologia cognitivo-comportamentale, con l'idea che questo mi avrebbe dato gli strumenti e il coraggio per avviare la mia attività, una delle docenti durante un colloquio di ammissione mi disse “Lei ha muri quasi invalicabili di sfiducia, dovrà lavorarci se vorrà esercitare la professione”. La scuola inizierà a novembre 2026, un weekend al mese. Tuttavia, mi trovo persa e senza obiettivi in questo lasso di tempo e sto mettendo in discussione anche la scelta di iniziare la scuola stessa (mi chiedo, “Mi piacerebbe davvero approfondire le storie personali dei pazienti per aiutarli a ritrovare una condizione di benessere?” Mi dico sì, amo il prossimo. Ma oggi non ne ho le forze e non so quindi se potrò un indomani). Nel dubbio ho iniziato a inviare candidature a Milano e sono stata selezionata per una posizione tanto ambita, ma ho declinato l’offerta perché non voglio tornare a vivere lì e allontanarmi dal mio ragazzo. L'ultima volta che sono tornata a Milano ho pianto tutta la notte ricordando l'incidente, e non so se riuscirei a gestire anche la distanza, data la mia ansia. Ma come potete ben vedere, mi lancio nelle cose senza fare una valutazione reale delle ripercussioni o delle conseguenze. Come se volessi solo mettermi in movimento.
Mio fratello vive a Milano, lavora e cresce, e ogni volta che parliamo, mi ritrovo a piangere dopo la chiamata, chiedendomi se mi manca più lui o la versione di me stessa che viveva lì. Gli sono stata molto accanto, soprattutto nel periodo in cui stava scoprendo la sua identità sessuale. Oggi è il mio più grande orgoglio, come sorella maggiore non potrei essere più felice per lui. Sta facendo carriera e a volte penso “la mia versione è lì e sta facendo il suo dovere in lui”.
La verità è che sono io quindi che non so cosa stia facendo, dove stia andando e perché prendo certe decisioni. Ho un profondo senso di smarrimento e vuoto. Sembro indossare una maschera sociale, sempre sorridente e disponibile, mentre dentro mi sento in caduta libera. Sono sempre “la più bella”, “la più socievole ed estroversa”, “colei che gestisce” e ama chiunque incontri, dai più piccoli ai più grandi, sempre pronta a supportare chiunque abbia bisogno di una mano, pronta a raddrizzare gli altri con tanto coraggio e audacia perché le persone valgono, sono più di ciò che vediamo. Mi basta rassicurare una donna in gravidanza e vederla sorridere per star meglio. Abbracciare il mio ragazzo quando è stanco per sentirmi a casa.
Da sei mesi, mio padre ha reso la nostra famiglia molto benestante grazie ai suoi investimenti. È un grande punto di riferimento per me e quando mi vede in difficoltà, mi incoraggia a sorridere e a non trasformare una condizione favorevole in un disagio. Mi esorta a mettermi in proprio e a lavorare subito come coach psicologa, per dedicarmi alla mia passione, mi motiva e crede in me, ma io non ci credo più nel percorso e benché meno in me. Non ho più quella “fame” che avevo quando vivevamo in condizioni diverse. Se devo far qualcosa, lo faccio oggi per “status”, per “hobby”. E non mi piace, non è l’educazione che abbiamo avuto quando eravamo piccoli, fatta di sacrifici e anche impegni. Non riesco a sentire le farfalle nello stomaco.
Non riesco a credere nei libri che leggevo, nelle eroine dei racconti, nelle pagine del mio diario, e nemmeno nelle mie stesse idee, che sembrano cambiare repentinamente. Non mi sento ispirata da nulla e anche il mio intuito è silenzioso. È stato difficile per me scrivere qui; ogni volta che ci penso, piango. Mi sento delusa da me stessa, e parlarne mi provoca ansia. Mi sento come se fossi bloccata da tre anni. Dov'è finita la me che correva per le strade di Milano, che lavorava, leggeva e scriveva? Dov'è finita la me che si innamorava delle scritte sui muri, dei bigliettini dei Baci Perugina, dei fiori? Che leggeva articoli di psicologia per informarsi e pagine di crescita personale per migliorarsi? Quella persona sembra estinta. Mi sento come una massa grigia che si obbliga ad andare in palestra per mantenere un bel fisico, come se fossi solo la "figlia di papà" che può oziare a tempo indeterminato, ma non è così. Quando mi chiedono se lavoro, mento dicendo di sì.
Mi piacerebbe capire con il vostro supporto se vi è tra queste righe un filo conduttore che riuscite a percepire, l’origine di questo caos silenzioso in cui vivo, vorrei tanto rifletterci e provare a guidarmi, smettere di forzarmi. Trovare una motivazione autentica e smettere di vivere come se ci fosse un vetro tra me e le cose. Ricevere qualche spunto di qualsiasi tipo, perchè io ci provo da sola ma non riesco a tirare le fila, mi perdo nei discorsi e le mie risposte sono sempre “Non lo so” o troppo troppo ipotetiche. Non ho gli strumenti per analizzarmi a fondo.
Grazie di Vero cuore,
una Psicologa
Cara collega,
ti capisco e mi dispiace per il tuo dolore, ma non devi perdere fiducia in te stessa. L’unico punto fermo che esiste in questo mondo in continua trasformazione è il nostro Essere.
Per Essere intendo una semplice sensazione di esistere, che precede il formarsi dei pensieri. I pensieri hanno sostituito l’Essere: pensiamo troppo, e gli oggetti hanno sostituito la naturalità del vivere.
Leggendo la tua lettera, quello che balza agli occhi è l’enorme uso dei pensieri, dei concetti, delle costruzioni psicologiche. Considera che già il Dhammapada affermava: “Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri. Con i nostri pensieri formiamo il mondo”.
Se vuoi conoscere veramente chi sei nella realtà, devi imparare a fermarti come mente e imparare a rilassare i pensieri. Questo accade quando si impara a meditare.
La tua storia mostra come funzioni per oscillazioni continue: slancio–blocco, idealizzazione–caduta. Faccio un esempio tratto dalla tua interessante lettera: ti entusiasmi, costruisci progetti, ti spingi avanti, poi arriva il crollo — la sfiducia, il vuoto, la convinzione di non essere abbastanza. Questo è il marchio di un Super-Io molto severo: una voce interna che ti giudica più duramente di chiunque altro.
Tutto questo è un accumulo di pensieri che non trovano uno spazio interno, alimentati da un approccio intellettuale e non esperienziale alla psicologia.
Un dubbio ti attanaglia: “Posso davvero fare la psicologa, aiutare gli altri, se non riesco a sentire fiducia in me stessa?”. È un dubbio legittimo. Ma ogni terapeuta porta in dote anche le proprie ferite. Il tuo lavoro sarà imparare a non negarle, ma a integrarle. E integrarle non significa vivere con il manuale di psicologia in mano.
Oltre alla grande elaborazione concettuale, il giudizio ti sovrasta: giudichi te e l’altro in ogni passo della lettera. Questo alimenta il senso di colpa che ti accompagna in ogni fase. Colpa per non essere abbastanza, colpa per non credere più nei tuoi stessi progetti, colpa per non sentire quella “fame” che la tua famiglia considera il motore del successo.
Noi pensiamo e parliamo con il modo di pensare che ci hanno trasmesso gli altri — genitori, amici, ricercatori. Ma l’esperienza diretta scompare in questo uso eccessivo di concetti.
ti capisco e mi dispiace per il tuo dolore, ma non devi perdere fiducia in te stessa. L’unico punto fermo che esiste in questo mondo in continua trasformazione è il nostro Essere.
Per Essere intendo una semplice sensazione di esistere, che precede il formarsi dei pensieri. I pensieri hanno sostituito l’Essere: pensiamo troppo, e gli oggetti hanno sostituito la naturalità del vivere.
Leggendo la tua lettera, quello che balza agli occhi è l’enorme uso dei pensieri, dei concetti, delle costruzioni psicologiche. Considera che già il Dhammapada affermava: “Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri. Con i nostri pensieri formiamo il mondo”.
Se vuoi conoscere veramente chi sei nella realtà, devi imparare a fermarti come mente e imparare a rilassare i pensieri. Questo accade quando si impara a meditare.
La tua storia mostra come funzioni per oscillazioni continue: slancio–blocco, idealizzazione–caduta. Faccio un esempio tratto dalla tua interessante lettera: ti entusiasmi, costruisci progetti, ti spingi avanti, poi arriva il crollo — la sfiducia, il vuoto, la convinzione di non essere abbastanza. Questo è il marchio di un Super-Io molto severo: una voce interna che ti giudica più duramente di chiunque altro.
Tutto questo è un accumulo di pensieri che non trovano uno spazio interno, alimentati da un approccio intellettuale e non esperienziale alla psicologia.
Un dubbio ti attanaglia: “Posso davvero fare la psicologa, aiutare gli altri, se non riesco a sentire fiducia in me stessa?”. È un dubbio legittimo. Ma ogni terapeuta porta in dote anche le proprie ferite. Il tuo lavoro sarà imparare a non negarle, ma a integrarle. E integrarle non significa vivere con il manuale di psicologia in mano.
Oltre alla grande elaborazione concettuale, il giudizio ti sovrasta: giudichi te e l’altro in ogni passo della lettera. Questo alimenta il senso di colpa che ti accompagna in ogni fase. Colpa per non essere abbastanza, colpa per non credere più nei tuoi stessi progetti, colpa per non sentire quella “fame” che la tua famiglia considera il motore del successo.
Noi pensiamo e parliamo con il modo di pensare che ci hanno trasmesso gli altri — genitori, amici, ricercatori. Ma l’esperienza diretta scompare in questo uso eccessivo di concetti.
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Ciao A, grazie per aver condiviso con tanta sincerità la tua esperienza e la tua domanda.
Trasformare il dolore in forza non è un processo immediato né semplice, ma è un percorso che può dare un senso nuovo alle difficoltà vissute. Spesso il dolore viene percepito solo come un peso che logora, ma in realtà, quando lo si riconosce e lo si elabora, può diventare una risorsa preziosa.
Un primo passo è accettare il dolore come parte della propria storia, senza viverlo come un nemico da cancellare, ma come qualcosa che ti ha reso la persona che sei oggi. Da lì si può lavorare sul significato: chiedersi “cosa posso imparare da quello che ho vissuto?” o “in che modo questa esperienza può darmi strumenti per affrontare le prossime sfide?”.
Un altro passaggio importante è spostare lo sguardo dall’aver resistito al poter costruire: non solo sopravvivere, ma iniziare a scegliere attivamente come vivere, a partire da piccoli gesti quotidiani che ti fanno sentire in contatto con i tuoi valori, i tuoi desideri e le tue risorse.
Infine, ricorda che la forza non significa non cadere mai, ma sapersi rialzare ogni volta con qualcosa in più. La resilienza nasce proprio dal contatto con la propria vulnerabilità, non dalla sua negazione.
Ovviamente, ogni percorso è unico e personale. Per questo motivo, sarebbe utile e consigliato per approfondire rivolgersi ad uno specialista, che possa accompagnarti in questo processo con strumenti e strategie adatte alla tua storia.
Dottoressa Silvia Parisi
Psicologa Psicoterapeuta Sessuologa
Trasformare il dolore in forza non è un processo immediato né semplice, ma è un percorso che può dare un senso nuovo alle difficoltà vissute. Spesso il dolore viene percepito solo come un peso che logora, ma in realtà, quando lo si riconosce e lo si elabora, può diventare una risorsa preziosa.
Un primo passo è accettare il dolore come parte della propria storia, senza viverlo come un nemico da cancellare, ma come qualcosa che ti ha reso la persona che sei oggi. Da lì si può lavorare sul significato: chiedersi “cosa posso imparare da quello che ho vissuto?” o “in che modo questa esperienza può darmi strumenti per affrontare le prossime sfide?”.
Un altro passaggio importante è spostare lo sguardo dall’aver resistito al poter costruire: non solo sopravvivere, ma iniziare a scegliere attivamente come vivere, a partire da piccoli gesti quotidiani che ti fanno sentire in contatto con i tuoi valori, i tuoi desideri e le tue risorse.
Infine, ricorda che la forza non significa non cadere mai, ma sapersi rialzare ogni volta con qualcosa in più. La resilienza nasce proprio dal contatto con la propria vulnerabilità, non dalla sua negazione.
Ovviamente, ogni percorso è unico e personale. Per questo motivo, sarebbe utile e consigliato per approfondire rivolgersi ad uno specialista, che possa accompagnarti in questo processo con strumenti e strategie adatte alla tua storia.
Dottoressa Silvia Parisi
Psicologa Psicoterapeuta Sessuologa
Buongiorno,
grazie per aver condiviso così apertamente la tua storia. Dal tuo racconto emerge un conflitto tra la tua voglia di realizzazione e il senso di blocco interno, che genera ansia, smarrimento e difficoltà a trovare motivazione autentica.
È naturale sentirsi confusi quando si intrecciano esperienze dolorose, responsabilità e aspettative, ma ciò non significa che tu non stia andando bene. Alcuni spunti:
- Osserva e accogli le tue emozioni senza giudizio, anche quelle di vuoto o stanchezza.
- Parti da piccoli obiettivi concreti che ti facciano sentire viva, senza forzarti.
- Riflettere su eventi chiave passati può aiutarti a comprendere schemi emotivi ricorrenti.
- Il supporto terapeutico continuativo può guidarti a ritrovare fiducia, autostima, motivazione e gestione dell’ansia.
Ogni passo, anche piccolo, è un progresso verso maggiore chiarezza e autenticità.
Un caro saluto!
Dott.ssa Cinzia Pirrotta
grazie per aver condiviso così apertamente la tua storia. Dal tuo racconto emerge un conflitto tra la tua voglia di realizzazione e il senso di blocco interno, che genera ansia, smarrimento e difficoltà a trovare motivazione autentica.
È naturale sentirsi confusi quando si intrecciano esperienze dolorose, responsabilità e aspettative, ma ciò non significa che tu non stia andando bene. Alcuni spunti:
- Osserva e accogli le tue emozioni senza giudizio, anche quelle di vuoto o stanchezza.
- Parti da piccoli obiettivi concreti che ti facciano sentire viva, senza forzarti.
- Riflettere su eventi chiave passati può aiutarti a comprendere schemi emotivi ricorrenti.
- Il supporto terapeutico continuativo può guidarti a ritrovare fiducia, autostima, motivazione e gestione dell’ansia.
Ogni passo, anche piccolo, è un progresso verso maggiore chiarezza e autenticità.
Un caro saluto!
Dott.ssa Cinzia Pirrotta
Salve, lei sta vivendo non un semplice smarrimento, ma il risultato di un lungo conflitto interno tra ciò che sente e ciò che crede di dover essere. L’incidente, l’ansia, la difficoltà a fidarsi, il blocco nel progettare: tutto sembra raccontare una frattura non ancora guarita, forse legata a esperienze traumatiche che meritano uno spazio sicuro per essere rielaborate, come può avvenire attraverso l’EMDR o l’analisi bioenergetica. Il dolore che prova, quella mancanza di “fame” o di ispirazione, non è assenza di valore ma forse il risultato di aver camminato troppo a lungo sotto aspettative rigide, senza concedersi davvero la possibilità di ascoltarsi con compassione. Non è detto che oggi debba avere tutte le risposte o decidere chi essere. Può iniziare dal dare spazio al sentire, con approcci come la psicoterapia umanistica o la Mindfulness, per ritrovare connessione con ciò che le appartiene davvero, senza più forzature. Il bisogno di mettersi in moto che descrive non è confusione, ma desiderio di vita. Solo che ora ha bisogno di radici, non solo di movimento, si conceda tempo, senza giudizio. Saluti,dott.ssa Sandra Petralli
Buonasera,
il forte disagio che lei sta vivendo traspare dalle frasi che scrive e fa ipotizzare una sofferenza che trae origine da lontano e che ora, per via di qualche evento scatenante, si è esacerbata. Nonostante lei sia stata molto chiara e la domanda sia ricca di particolari, è molto difficile capire quale sia l'origine di tale "caos silenzioso", come lei lo chiama, senza un profondo e accurato lavoro di analisi personale.
L'immagine che ho, leggendo le sue parole, anche in virtù del percorso terapeutico che lei ha effettuato, è di un puzzle in cui vi sono molti pezzi, forse qualcuno è ancora mancante, ma essi sono sparsi e regna il caos. L'aiuto di un professionista potrebbe aiutarla a comporre il puzzle della sua personalità. Gli elementi per un possibile lavoro terapeutico ci sono, ma vanno esaminati ed analizzati nel profondo.
Infine, vorrei rassicurarla sul fatto che è normale non riuscire ad analizzarsi da soli: si è imbrigliati nelle proprie emozioni e nei propri vissuti, perciò non è possibile quel lavoro di discesa nelle proprie difese precipuo del lavoro analitico, che, per essere svolto, necessita di un altro da noi che ci guardi da fuori. E noi non ne siamo capaci perchè non ci è possibile.
Le auguro di costruire il puzzle che ora appare molto disordinato e godere della bellezza che verrà fuori.
Un caro saluto.
il forte disagio che lei sta vivendo traspare dalle frasi che scrive e fa ipotizzare una sofferenza che trae origine da lontano e che ora, per via di qualche evento scatenante, si è esacerbata. Nonostante lei sia stata molto chiara e la domanda sia ricca di particolari, è molto difficile capire quale sia l'origine di tale "caos silenzioso", come lei lo chiama, senza un profondo e accurato lavoro di analisi personale.
L'immagine che ho, leggendo le sue parole, anche in virtù del percorso terapeutico che lei ha effettuato, è di un puzzle in cui vi sono molti pezzi, forse qualcuno è ancora mancante, ma essi sono sparsi e regna il caos. L'aiuto di un professionista potrebbe aiutarla a comporre il puzzle della sua personalità. Gli elementi per un possibile lavoro terapeutico ci sono, ma vanno esaminati ed analizzati nel profondo.
Infine, vorrei rassicurarla sul fatto che è normale non riuscire ad analizzarsi da soli: si è imbrigliati nelle proprie emozioni e nei propri vissuti, perciò non è possibile quel lavoro di discesa nelle proprie difese precipuo del lavoro analitico, che, per essere svolto, necessita di un altro da noi che ci guardi da fuori. E noi non ne siamo capaci perchè non ci è possibile.
Le auguro di costruire il puzzle che ora appare molto disordinato e godere della bellezza che verrà fuori.
Un caro saluto.
Buonasera collega. Apprezzo la sincerità con cui ti interroghi in queste righe e mi viene da dirti che non esistono, per me, dei passi precisi da compiere ma probabilmente la possibilità di sentire questo spazio vuoto mi pare in cui stai vivendo, come una possibilità, uno spazio dove contattare il desiderare. Il sentire del desiderio di scoperta al di là delle convenzioni o di quello che asosteppare. Dagli spazi vuoti e dalle soste nasce il desiderio, bisogna vivere lo spazio vuoto come possibilità. Se lo ritieni online posso aiutarti. Saluti Dario Martelli
Buongiorno,
grazie per aver scelto di condividere la sua storia con tanta profondità, lucidità e autenticità. Ciò che traspare dalle sue parole è un’anima estremamente sensibile, riflessiva, capace di grande amore per gli altri ma forse molto severa e poco gentile con se stessa.
Nel suo racconto emerge un filo conduttore: un bisogno urgente di autenticità, che convive però con un fortissimo senso di inadeguatezza e con una sorta di "dovere implicito" di essere all’altezza delle aspettative – sue, degli altri, del passato, delle versioni di sé che sente di aver perso.
Lei parla spesso di “correre”, di “muoversi”, di “fare qualcosa”, ma raramente di “sentire” davvero ciò che vuole – per sé, al di là dell’obbligo, del confronto, o dell’immagine.
Il dolore che ha vissuto (relazioni idealizzate, senso di colpa, trauma emotivo legato all’incidente, paura del fallimento, ansia da prestazione, vissuti familiari) sembra aver lasciato una frattura interna che oggi le impedisce di “abitare” con pienezza il presente.
Lei non è immobile: è in una fase di elaborazione profonda, solo che non si vede “dall’esterno”, non si misura in azioni visibili. Ma il suo caos ha senso. È il segno di una trasformazione che non è ancora compiuta.
Quella "versione di sé" che cerca con nostalgia non è estinta, ma ha bisogno di essere riconosciuta in forme nuove. L’energia che descrive – quella fame, quella passione – oggi è sepolta sotto aspettative, sensi di colpa e forse anche sotto una domanda fondamentale che è rimasta inascoltata: "Chi sono io, se non sto correndo?"
Lei ha molte risorse – intellettuali, emotive, relazionali. Ma manca un punto fermo. Un luogo (interno o terapeutico) dove poter rallentare senza sentirsi sbagliata, dove poter riconoscere cosa le serve adesso, non cosa dovrebbe volere.
Le domande che pone (“Mi piace davvero la clinica?”, “Voglio fidarmi?”, “Sto facendo tutto per status?”) sono tutte valide, ma forse la domanda più fertile è:
"Se mi togliessi l’idea di dover diventare qualcuno, chi potrei essere oggi?"
Un percorso terapeutico che tenga insieme la sua storia, i suoi vissuti, e il suo bisogno di struttura emotiva potrebbe aiutarla a ritrovare il contatto con sé stessa – non con l’immagine ideale, ma con la persona autentica che è adesso, nel presente. A ritrovare il diritto di sentire e scegliere, senza performance, senza giudizio.
Se sente il bisogno di lavorare su questi temi, resto a disposizione per accompagnarla in un cammino che sia, prima di tutto, uno spazio sicuro in cui ricominciare ad ascoltarsi senza forzarsi.
Dott.ssa Di Maggio Federica
Terapeuta sistemico-relazionale
grazie per aver scelto di condividere la sua storia con tanta profondità, lucidità e autenticità. Ciò che traspare dalle sue parole è un’anima estremamente sensibile, riflessiva, capace di grande amore per gli altri ma forse molto severa e poco gentile con se stessa.
Nel suo racconto emerge un filo conduttore: un bisogno urgente di autenticità, che convive però con un fortissimo senso di inadeguatezza e con una sorta di "dovere implicito" di essere all’altezza delle aspettative – sue, degli altri, del passato, delle versioni di sé che sente di aver perso.
Lei parla spesso di “correre”, di “muoversi”, di “fare qualcosa”, ma raramente di “sentire” davvero ciò che vuole – per sé, al di là dell’obbligo, del confronto, o dell’immagine.
Il dolore che ha vissuto (relazioni idealizzate, senso di colpa, trauma emotivo legato all’incidente, paura del fallimento, ansia da prestazione, vissuti familiari) sembra aver lasciato una frattura interna che oggi le impedisce di “abitare” con pienezza il presente.
Lei non è immobile: è in una fase di elaborazione profonda, solo che non si vede “dall’esterno”, non si misura in azioni visibili. Ma il suo caos ha senso. È il segno di una trasformazione che non è ancora compiuta.
Quella "versione di sé" che cerca con nostalgia non è estinta, ma ha bisogno di essere riconosciuta in forme nuove. L’energia che descrive – quella fame, quella passione – oggi è sepolta sotto aspettative, sensi di colpa e forse anche sotto una domanda fondamentale che è rimasta inascoltata: "Chi sono io, se non sto correndo?"
Lei ha molte risorse – intellettuali, emotive, relazionali. Ma manca un punto fermo. Un luogo (interno o terapeutico) dove poter rallentare senza sentirsi sbagliata, dove poter riconoscere cosa le serve adesso, non cosa dovrebbe volere.
Le domande che pone (“Mi piace davvero la clinica?”, “Voglio fidarmi?”, “Sto facendo tutto per status?”) sono tutte valide, ma forse la domanda più fertile è:
"Se mi togliessi l’idea di dover diventare qualcuno, chi potrei essere oggi?"
Un percorso terapeutico che tenga insieme la sua storia, i suoi vissuti, e il suo bisogno di struttura emotiva potrebbe aiutarla a ritrovare il contatto con sé stessa – non con l’immagine ideale, ma con la persona autentica che è adesso, nel presente. A ritrovare il diritto di sentire e scegliere, senza performance, senza giudizio.
Se sente il bisogno di lavorare su questi temi, resto a disposizione per accompagnarla in un cammino che sia, prima di tutto, uno spazio sicuro in cui ricominciare ad ascoltarsi senza forzarsi.
Dott.ssa Di Maggio Federica
Terapeuta sistemico-relazionale
Buongiorno, la sua dissertazione mi ha fatto riflettere. Mi permetto innanzitutto di suggerirle due testi che spero possano darle spunti innovativi: "Perfetti o felici" di Stefania Andreoli e, soprattutto, "Elogio dell'ignoranza e dell'errore" di Gianrico Carofiglio.
Sono un terapeuta Cognitivo comportamentale ma per inclinazione non disdegno sconfinare in altre dottrine quando queste offrono ispirazioni utili ad alimentare dibattiti e congetture che mettano in moto le "esperienze". Secondo Jung un obiettivo fondamentale dell'essere umano, a suo dire quasi sacro, era il processo di "Individuazione", faccio appello alle sue conoscenze per lasciare sottintesa la definizione. In questo traguardo, secondo lui (ma anche me) una persona può vivere nella pienezza della sua esistenza.
In linea teorica, lei ha già proiettato in un futuro ipotetico di essersi già individuata, nella forma altruistica di Terapeuta. In questo scenario ancora immaginifico (ma in stadio piuttosto avanzato dal punto di vista accademico) non è in realtà ancora "scaricato a terra"....se vogliamo usare una metafora Cognitivo comportamentale.
Il mio modestissimo parere è che questo passo non è ancora avvenuto poiché c'è un vuoto da colmare tra il "Sapere" ed il "Saper essere", e che questo spazio si possa restringere iscrivendosi ad un'università per la quale non si deve pagare nessuna iscrizione, almeno economica, quella della strada, o della vita. Il grado delle sue esperienze è senza dubbio notevole, la triennale in Psicologia, l'esperienza in USA, l'esperienza meneghina, l'incidente.... ma se ci fa caso tali esperienze sono incluse o nell'area dell'istruzione o in quella semitraumatica o amorosa. Certo anch'esse possono includersi all'interno del percorso dell'Università della vita, tuttavia, ed io ne sono alquanto certo, non bastano assolutamente alla sua fame di esperienze nel mare del "Saper vivere". Dove voglio arrivare? si prenda un anno sabbatico. Faccia del volontariato in qualche Ong estera, faccia la facchina, faccia il Cammino di Santiago, o quello del Nord, quello Portoghese, o la Via Francigena, la barista, provi l'Ayahuasca in qualche Daime in Colombia, o in Brasile, faccia la commessa, insomma, si immerga nell'Oceano sconfinato delle possibilità che la sua stupenda età le concede. Il "Saper Vivere" non ha ricette, ma solo l'espletamento della forza motrice che sono certo ribolle anche in lei, la Curiosità espletata. Se le passa per la testa che queste possano essere esperienze solo 'orbitali' al conseguimento della sicurezza e capacità di esercitare il ruolo di terapeuta, mi creda sulla parola, si sbaglia. Insomma cada, e cada ancora, e come Anteo, il gigante combattente figlio di Gea, divinità della madre terra, ogni volta che cadeva in combattimento e ritrovava il contatto con la Terra, sua madre, si rimetteva in piedi più forte e vigoroso (Carofiglio). L'integrale di tutto ciò che saprà fare, si evolverà a regalarle quella forza tranquilla di affrontare anche la disperazione e l'abisso di un cinquantenne che entrerà nel suo studio a confessare i suoi dolori. Perché sono certo che questo avverrà? perché tutte le esperienze (ed altre inconfessabili al publico per riservatezza e pudore) io le ho fatte, ed hanno seminato in me un'armatura ed al contempo una sensibilità di diventare un, direi, discreto Terapeuta. Sfrutti un'enorme vantaggio che lei sottostima ma che le può permettere di fare ciò che crede, nel mare magnum delle esperienze, la sua giovinezza. Buona fortuna
Sono un terapeuta Cognitivo comportamentale ma per inclinazione non disdegno sconfinare in altre dottrine quando queste offrono ispirazioni utili ad alimentare dibattiti e congetture che mettano in moto le "esperienze". Secondo Jung un obiettivo fondamentale dell'essere umano, a suo dire quasi sacro, era il processo di "Individuazione", faccio appello alle sue conoscenze per lasciare sottintesa la definizione. In questo traguardo, secondo lui (ma anche me) una persona può vivere nella pienezza della sua esistenza.
In linea teorica, lei ha già proiettato in un futuro ipotetico di essersi già individuata, nella forma altruistica di Terapeuta. In questo scenario ancora immaginifico (ma in stadio piuttosto avanzato dal punto di vista accademico) non è in realtà ancora "scaricato a terra"....se vogliamo usare una metafora Cognitivo comportamentale.
Il mio modestissimo parere è che questo passo non è ancora avvenuto poiché c'è un vuoto da colmare tra il "Sapere" ed il "Saper essere", e che questo spazio si possa restringere iscrivendosi ad un'università per la quale non si deve pagare nessuna iscrizione, almeno economica, quella della strada, o della vita. Il grado delle sue esperienze è senza dubbio notevole, la triennale in Psicologia, l'esperienza in USA, l'esperienza meneghina, l'incidente.... ma se ci fa caso tali esperienze sono incluse o nell'area dell'istruzione o in quella semitraumatica o amorosa. Certo anch'esse possono includersi all'interno del percorso dell'Università della vita, tuttavia, ed io ne sono alquanto certo, non bastano assolutamente alla sua fame di esperienze nel mare del "Saper vivere". Dove voglio arrivare? si prenda un anno sabbatico. Faccia del volontariato in qualche Ong estera, faccia la facchina, faccia il Cammino di Santiago, o quello del Nord, quello Portoghese, o la Via Francigena, la barista, provi l'Ayahuasca in qualche Daime in Colombia, o in Brasile, faccia la commessa, insomma, si immerga nell'Oceano sconfinato delle possibilità che la sua stupenda età le concede. Il "Saper Vivere" non ha ricette, ma solo l'espletamento della forza motrice che sono certo ribolle anche in lei, la Curiosità espletata. Se le passa per la testa che queste possano essere esperienze solo 'orbitali' al conseguimento della sicurezza e capacità di esercitare il ruolo di terapeuta, mi creda sulla parola, si sbaglia. Insomma cada, e cada ancora, e come Anteo, il gigante combattente figlio di Gea, divinità della madre terra, ogni volta che cadeva in combattimento e ritrovava il contatto con la Terra, sua madre, si rimetteva in piedi più forte e vigoroso (Carofiglio). L'integrale di tutto ciò che saprà fare, si evolverà a regalarle quella forza tranquilla di affrontare anche la disperazione e l'abisso di un cinquantenne che entrerà nel suo studio a confessare i suoi dolori. Perché sono certo che questo avverrà? perché tutte le esperienze (ed altre inconfessabili al publico per riservatezza e pudore) io le ho fatte, ed hanno seminato in me un'armatura ed al contempo una sensibilità di diventare un, direi, discreto Terapeuta. Sfrutti un'enorme vantaggio che lei sottostima ma che le può permettere di fare ciò che crede, nel mare magnum delle esperienze, la sua giovinezza. Buona fortuna
Grazie per aver condiviso con tanta sincerità e profondità la sua storia. Si percepisce quanta fatica, ma anche quanta sensibilità e desiderio di autenticità ci siano dietro le sue parole. Non è affatto un disturbo per chi legge: anzi, la sua capacità di raccontarsi è già una risorsa preziosa.
Da quanto scrive, emerge un filo conduttore molto chiaro: la tensione costante tra ciò che “dovrebbe” fare (realizzare obiettivi, mostrarsi forte, avviare un percorso professionale, rispondere alle aspettative) e ciò che sente dentro (vuoto, paura di non essere abbastanza, smarrimento, ansia di fidarsi e di lasciarsi andare). È come se una parte di lei si muovesse per tenere viva l’immagine esterna — “la ragazza solare, capace, socievole” — mentre l’altra parte resta ferma, spenta, e chiede uno spazio di ascolto più intimo e autentico.
Non c’è nulla di “sbagliato” in questo. Spesso quando il corpo e la mente ci mandano segnali così forti, lo fanno perché vogliono fermarci: non per bloccarci, ma per aiutarci a riscoprire la direzione che davvero ci appartiene, oltre gli status, i ruoli e i modelli ideali. Anche la sua paura di non avere più “fame” può essere letta come un invito a cambiare prospettiva: non rincorrere solo mete alte, ma ricominciare dalle piccole scintille che le danno senso — come il sorriso di chi incontra, o l’abbraccio del suo compagno.
In terapia, questi momenti di “caos silenzioso” sono visti non come una condanna, ma come una fase di transizione. Il fatto che lei si interroghi così tanto, che senta dolore per il distacco dalla “sé di Milano”, mostra che dentro c’è ancora un forte desiderio di ritrovare autenticità. Si tratta di accogliere la sua parte fragile, spaventata, non come un ostacolo ma come qualcosa che ha bisogno di essere vista e compresa.
Forse oggi non sente le farfalle nello stomaco, ma il suo scrivere qui è già un piccolo atto di fiducia: una mano tesa, che dice “non voglio arrendermi, voglio capire”. Ed è da qui che si può ripartire, passo dopo passo, trovando un sostegno che la accompagni a distinguere i bisogni autentici dalle voci esterne, a ricucire il legame con se stessa e con i suoi desideri più veri.
Le voglio lasciare un messaggio rassicurante: non è sola, e non è “finita” la persona che era. È ancora lì, sotto la superficie, in attesa di essere accolta senza giudizio. Con il giusto supporto, potrà ritrovare un nuovo equilibrio che non sarà un ritorno al passato, ma una versione più matura e più gentile di sé stessa.
Da quanto scrive, emerge un filo conduttore molto chiaro: la tensione costante tra ciò che “dovrebbe” fare (realizzare obiettivi, mostrarsi forte, avviare un percorso professionale, rispondere alle aspettative) e ciò che sente dentro (vuoto, paura di non essere abbastanza, smarrimento, ansia di fidarsi e di lasciarsi andare). È come se una parte di lei si muovesse per tenere viva l’immagine esterna — “la ragazza solare, capace, socievole” — mentre l’altra parte resta ferma, spenta, e chiede uno spazio di ascolto più intimo e autentico.
Non c’è nulla di “sbagliato” in questo. Spesso quando il corpo e la mente ci mandano segnali così forti, lo fanno perché vogliono fermarci: non per bloccarci, ma per aiutarci a riscoprire la direzione che davvero ci appartiene, oltre gli status, i ruoli e i modelli ideali. Anche la sua paura di non avere più “fame” può essere letta come un invito a cambiare prospettiva: non rincorrere solo mete alte, ma ricominciare dalle piccole scintille che le danno senso — come il sorriso di chi incontra, o l’abbraccio del suo compagno.
In terapia, questi momenti di “caos silenzioso” sono visti non come una condanna, ma come una fase di transizione. Il fatto che lei si interroghi così tanto, che senta dolore per il distacco dalla “sé di Milano”, mostra che dentro c’è ancora un forte desiderio di ritrovare autenticità. Si tratta di accogliere la sua parte fragile, spaventata, non come un ostacolo ma come qualcosa che ha bisogno di essere vista e compresa.
Forse oggi non sente le farfalle nello stomaco, ma il suo scrivere qui è già un piccolo atto di fiducia: una mano tesa, che dice “non voglio arrendermi, voglio capire”. Ed è da qui che si può ripartire, passo dopo passo, trovando un sostegno che la accompagni a distinguere i bisogni autentici dalle voci esterne, a ricucire il legame con se stessa e con i suoi desideri più veri.
Le voglio lasciare un messaggio rassicurante: non è sola, e non è “finita” la persona che era. È ancora lì, sotto la superficie, in attesa di essere accolta senza giudizio. Con il giusto supporto, potrà ritrovare un nuovo equilibrio che non sarà un ritorno al passato, ma una versione più matura e più gentile di sé stessa.
Gentilissima, volevo dapprima ringraziarla per la sincerità e il coraggio con cui ha condiviso la sua storia. Dalle sue parole emerge un forte desiderio di autenticità, accompagnato dalla paura di smarrirsi e di non sentirsi mai abbastanza. È un po’ come trovarsi davanti a un ponte sospeso; si vede chiaramente la meta, ma ogni passo sembra piuttosto incerto. Questo non significa essere deboli, anzi, è il segno di una sensibilità profonda che chiede solo di avere tempo e spazio per respirare. Ritrovare fiducia non vuol dire sforzarsi oltre misura, ma concedersi la possibilità di attraversare questi momenti con gradualità, lasciandosi sostenere. Il bisogno, forse, è proprio quello di ritrovare il filo della sua storia. Un caro saluto, Dott. Fabio di Guglielmo
Salve cara collega
Dalla lunga email si evince una grande sofferenza... emotiva
Il trattamento nasce dal prendersi cura del proprio mondo interiore che è ben più complesso di quanto gli studi ( anche mirati come possono essere quelli accademici in psicologia) riescono a trasmetterci
Esistono numerosi trattamenti come ben sa ma sento di suggerire un percorso Animico che le consentirebbe di rientrare in contatto con sé stessa e con la sua vera natura
Dott lorenzini Maria santa psicoterapeuta
Dalla lunga email si evince una grande sofferenza... emotiva
Il trattamento nasce dal prendersi cura del proprio mondo interiore che è ben più complesso di quanto gli studi ( anche mirati come possono essere quelli accademici in psicologia) riescono a trasmetterci
Esistono numerosi trattamenti come ben sa ma sento di suggerire un percorso Animico che le consentirebbe di rientrare in contatto con sé stessa e con la sua vera natura
Dott lorenzini Maria santa psicoterapeuta
Salve Psicologa, così si firma, ho letto attentamente la sua lunga lettera. Dalla sua domanda si percepisce e traspare una profonda depressione che le impedisce di provare piacere ed entrare in sintonia con gli altri e soprattutto lo richiede il lavoro che avrebbe scelto di fare, che richiede molto altruismo ed entrare in contatto profondo con la persona che ci chiede aiuto. Potrei consigliarle di fare un buon percorso terapeutico, incominciando ad abbattere quella barriera che lei ha instaurato e vincere la paura che lei prova. Se vuole mi può contattare, la ringrazio, dott. Eugenia Cardilli.
Buongiorno, hai scritto tanto di te e quel che ai miei occhi sembra emergere è l'ansia di cercare e ricercare il tuo posto ma altrettanto l'incapacità in questo momento di trovarlo. A mio avviso più si cerca così affannosamente e meno ci si ritrova. Credo che il trauma dell'incidente è qualcosa che vada elaborato, come anche le relazioni con i tuoi partner e quella mancanza di fiducia che oggi senti che forse non deriva solo da 1 unica delusione ma è qualcosa che richiama origini più lontane e profonde. Scrivi provare a guidarmi, smettere di forzarmi... forse sono queste le parole ... cioè ritrovare in te il desiderio non il devo ma tanto meno il voglio che comunque implica un movimento di forzatura ... ascoltati ... non in un ascolto a scadenza ma nel tempo. Se vuoi possiamo approfondire insieme. Un cordiale saluto. Dott.ssa Alessandra Domigno
La ringrazio per aver condiviso con tanta sincerità e profondità il suo vissuto: già il fatto di riuscire a metterlo in parole e affidarlo ad altri è un atto di grande coraggio. Quello che emerge dal suo racconto è un percorso intenso, fatto di passioni, esperienze significative, cadute dolorose e ripartenze. Non sorprende che, dopo tanta intensità, oggi possa sentirsi smarrita, come se la spinta che l’ha guidata fino a qui si fosse affievolita.
Il senso di vuoto e di blocco che descrive può essere vissuto come qualcosa di paralizzante, ma non significa che lei abbia “perso” la parte migliore di sé. Piuttosto, sembra che stia attraversando un momento di transizione, in cui il vecchio modo di dare senso alle cose non le basta più e quello nuovo non è ancora del tutto emerso. È una fase delicata, ma che può diventare anche uno spazio fertile, se accompagnata nel modo giusto.
Intraprendere un percorso psicoterapeutico potrebbe aiutarla a dare ordine a questo caos interiore, a comprendere meglio l’origine delle sue paure (di fallire, di fidarsi, di non essere “abbastanza”) e a ritrovare una direzione più autentica e sostenibile per sé stessa. Non si tratta di ritornare alla “vecchia lei”, ma di scoprire chi può diventare oggi, con tutto ciò che ha vissuto e imparato.
Il fatto che abbia ancora un forte desiderio di amare, di aiutare gli altri e di trovare una motivazione autentica è un segnale prezioso: significa che dentro di lei non è estinto quel fuoco, ma forse attende solo di essere alimentato con nuove modalità e con più fiducia.
Spero davvero possa trovare presto la sua strada.
Cordialmente
Dott.ssa Francesca Torretta
Il senso di vuoto e di blocco che descrive può essere vissuto come qualcosa di paralizzante, ma non significa che lei abbia “perso” la parte migliore di sé. Piuttosto, sembra che stia attraversando un momento di transizione, in cui il vecchio modo di dare senso alle cose non le basta più e quello nuovo non è ancora del tutto emerso. È una fase delicata, ma che può diventare anche uno spazio fertile, se accompagnata nel modo giusto.
Intraprendere un percorso psicoterapeutico potrebbe aiutarla a dare ordine a questo caos interiore, a comprendere meglio l’origine delle sue paure (di fallire, di fidarsi, di non essere “abbastanza”) e a ritrovare una direzione più autentica e sostenibile per sé stessa. Non si tratta di ritornare alla “vecchia lei”, ma di scoprire chi può diventare oggi, con tutto ciò che ha vissuto e imparato.
Il fatto che abbia ancora un forte desiderio di amare, di aiutare gli altri e di trovare una motivazione autentica è un segnale prezioso: significa che dentro di lei non è estinto quel fuoco, ma forse attende solo di essere alimentato con nuove modalità e con più fiducia.
Spero davvero possa trovare presto la sua strada.
Cordialmente
Dott.ssa Francesca Torretta
Buongiorno e grazie per aver condiviso il suo vissuto con noi.
ho letto attentamente il suo scritto e ad ogni evento interno ed esterno mi sono chiesta insistentemente il perchè lei non ha mai deciso di intraprendere un percorso terapeutico.
noi psicoteraputi siamo stati per molti anni in terapia nella cnvinzione che dobbisamo prima essere " risolti noi per poter veramente aiutare gli altri.
le consiglio di prender ein considerazione lòa possibilità di discutere con un terapeuta esperto che possa davvero venire assieme a lei a capo del filo conduttore di questa insicirezza e insoddisfazione, chiedere ad un professionista di leggere fra le righe è lecito, ma pensare di riuscire a venire a capo di un problema solo così è utopia .
sperando di esserle stata d'aiuto la saluto cordialemnte
ho letto attentamente il suo scritto e ad ogni evento interno ed esterno mi sono chiesta insistentemente il perchè lei non ha mai deciso di intraprendere un percorso terapeutico.
noi psicoteraputi siamo stati per molti anni in terapia nella cnvinzione che dobbisamo prima essere " risolti noi per poter veramente aiutare gli altri.
le consiglio di prender ein considerazione lòa possibilità di discutere con un terapeuta esperto che possa davvero venire assieme a lei a capo del filo conduttore di questa insicirezza e insoddisfazione, chiedere ad un professionista di leggere fra le righe è lecito, ma pensare di riuscire a venire a capo di un problema solo così è utopia .
sperando di esserle stata d'aiuto la saluto cordialemnte
Gentile collega,
la sua narrazione è ricca e intensa, e riflette un vissuto di grande sensibilità e al tempo stesso di fatica a trovare un filo conduttore. Spesso, quando ci si percepisce “bloccati” e privi di quella spinta vitale che prima era naturale, può essere utile distinguere tra ciò che è un bisogno autentico e ciò che nasce dal confronto con aspettative (proprie o familiari).
Mi colpisce la metafora del “vetro tra sé e le cose”: descrive bene quella distanza interiore che porta a vivere come spettatori più che come protagonisti. Una domanda che può guidarla è: in quali momenti recenti ho sentito, anche solo per un attimo, quel vetro assottigliarsi? Anche piccoli episodi possono dare indizi preziosi.
Il suo percorso, tra studi e scelte di vita, mostra che le risorse non le mancano: forse ora serve rallentare e riconoscere quali passi desidera fare per sé, non per lo “status” o per lo sguardo degli altri.
la sua narrazione è ricca e intensa, e riflette un vissuto di grande sensibilità e al tempo stesso di fatica a trovare un filo conduttore. Spesso, quando ci si percepisce “bloccati” e privi di quella spinta vitale che prima era naturale, può essere utile distinguere tra ciò che è un bisogno autentico e ciò che nasce dal confronto con aspettative (proprie o familiari).
Mi colpisce la metafora del “vetro tra sé e le cose”: descrive bene quella distanza interiore che porta a vivere come spettatori più che come protagonisti. Una domanda che può guidarla è: in quali momenti recenti ho sentito, anche solo per un attimo, quel vetro assottigliarsi? Anche piccoli episodi possono dare indizi preziosi.
Il suo percorso, tra studi e scelte di vita, mostra che le risorse non le mancano: forse ora serve rallentare e riconoscere quali passi desidera fare per sé, non per lo “status” o per lo sguardo degli altri.
Sei stata molto coraggiosa a condividere questo vissuto così approfondito ed intimo. Ad una lettura attenta, è possibile scorgere un filo conduttore, così come una forte motivazione da parte tua a cambiare le cose. Credo che tu possa giovare grandemente da un buon percorso di psicoterapia, che ti aiuti a dare un senso unitario alla tua storia di vita e a ritrovare una direzionalità genuina, che parta dai tuoi bisogni e da quello che ti piace.
Qualora tu lo desiderassi, puoi prenotare un incontro per parlare più approfonditamente della questione.
Buona giornata!
Qualora tu lo desiderassi, puoi prenotare un incontro per parlare più approfonditamente della questione.
Buona giornata!
Cara Psicologa, ti ringrazio innanzitutto per questa lunga e ricca condivisione. Sono d'accordo con te: a volte cercare da soli il filo rosso che dà un senso a quello che ci succede e a come agiamo e reagiamo alle situazioni è molto difficile. hai condiviso una storia lunga, ma personalmente avrei bisogno di approfondirla insieme a te: mi piacerebbe approfondire la tua esperienza a Milano, il tuo trascorso difficile con il ragazzo di Milano che mi sembra di capire ti abbia portato a vivere il trauma dell'incidente, sentirei il bisogno di ripercorrere anche proprio quell'incidente perchè la sensazione che ho è che abbia come cristallizzato delle cose, che ti potrebbero impedire ad esempio di riaprire il tuo futuro a Milano; sentirei il bisogno di entrare in tutte le porte che apri, che sono tante, per capire insieme chi sei davvero e soprattutto cosa vuoi cambiare di te, cosa vuoi trasformare, per recuperare la tua linfa vitale ed il tuo entusiasmo. Il mio suggerimento è di ripartire con un percorso di terapia, con qualcuno che possa ispirarti fiducia e a cui poterti appoggiare, in modo da ricevere l'aiuto necessario per sviluppare quegli strumenti di cui parli, non solo per analizzarti ma anche per comprenderti a fondo, accoglierti, abbracciarti e cambiare. Se volessi approfondire tutto insieme a me mi trovi a disposizione, anche online. Un caro saluto, dott.ssa Elena Gianotti
Buonasera, gli incidenti, come lei saprà, appartengono ai grandi traumi e spesso causano cambiamenti profondi. Penso, da ciò che scrive, che le potrebbe davvero essere utile intraprendere un percorso Emdr. Mi pare che quell'evento possa avere intrecciato una serie di cambiamenti in se e nella sua mente. Rincorrere i sintomi non serve e non basta. Si informi su questo approccio e lo provi. Come psicologa non deve mai smettere di provare, scavare e sperimentare:potrà esserne solo arricchita.
Cordiali saluti
Dott.ssa Valeria Randisi
Cordiali saluti
Dott.ssa Valeria Randisi
Buongiorno,
la inviterei a continuare il suo percorso terapeutico o nel caso lo avesse interrotto di riprenderlo o di iniziarne uno ex novo. Qualora avesse bisogno di un nuovo terapista, non esiti pure a contattarmi, sarei disponibile ad accogliere ed orientare la sua richiesta di aiuto.
Cordiali Saluti
Dott. Diego Ferrara
la inviterei a continuare il suo percorso terapeutico o nel caso lo avesse interrotto di riprenderlo o di iniziarne uno ex novo. Qualora avesse bisogno di un nuovo terapista, non esiti pure a contattarmi, sarei disponibile ad accogliere ed orientare la sua richiesta di aiuto.
Cordiali Saluti
Dott. Diego Ferrara
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