
Via Einaudi, Trento 38123
Attualmente svolgiamo solo prestazioni ONLINE
Leggi di più06/09/2024
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Punteggio generale
Mi sono sentita ascoltata e profondamente capita. Un vero professionista: attento, empirico e professionale.
Mi sono rivolto al dottor Vocino per effettuare un test di memoria.
È molto competente, attendo alle esigenze del paziente, empatico, lo consiglio vivamente
Accoglienza ottima e professionalità; punto di forza: la flessibilità degli orari per gli incontri ed il fatto che spieghi cosa sta facendo e come. Punti di debolezza: nessuno. Consiglio a tutti
Quello che mi colpisce dello Psicologo Vocino è la sua incredibile capacità di ascoltare e di farti sentire veramente capito.
È un percorso in cui mi sento molto ascoltata, anche nei dettagli, compresa, ed accompagnata verso gli strumenti che possono essere più adatti al mio caso, ho ottenuto risultati sicuramente incoraggianti, consiglio anche a chi ha già vissuto dei percorsi senza grandi miglioramenti.
Mi sto trovando molto bene con Luca, continueró sicuramente per un po’.
Luca è un professionista con la P maiuscola. Sempre puntuale e preciso nella sue spiegazioni e nei suoi consigli. Ogni incontro vorresti durasse più tempo perché riesce a metterti a tuo agio in ogni situazione. Consigliatissimo.
Luca e’ professionale, con un approccio pragmatico, empatico, molto cordiale.
Dottore professionista eccellente, sa ascoltare e trova le domande giuste per far riflettere e arrivare alle conclusioni più adatte. Consiglio fortemente anche per la disponibilità extra colloquiale che mette a disposizione per ogni evenienza
ha risposto a 840 domande da parte di pazienti di MioDottore
Buongiorno,
Io e il mio fidanzato da anni ormai proviamo ad avere un figli* , poi ci siamo rivolti a una clinica di inseminazione , fatto 2 trattamenti senza successo , martedì avrei una visita per iniziare di nuovo il percorso, ma parlandone e confrontandoci , non siamo più convinti a proseguire, abbiamo 35 anni e siamo consapevoli della forza e dell' impegno da avere verso un figli* oggigiorno , ma i nostri genitori ci sperano anche perché siamo gli unici in famiglia a non averne..., è una nostra scelta , pensiamo che sarebbe dovuto arrivare prima , noi abbiamo fatto il possibile, ma abbiamo paura di deluderli anche perché questa scelta di certo verrà giudicata male ...come ci dobbiamo comportare con i nostri??!
Buongiorno gentile Utente, le sue parole raccontano con grande sincerità un momento molto delicato e intimo della vostra vita di coppia. Ciò che emerge non è solo la complessità della scelta in sé (proseguire o meno un percorso di procreazione assistita) ma soprattutto il peso emotivo e relazionale che questa scelta porta con sé, tra aspettative familiari, senso di colpa, dolore e forse anche una certa stanchezza interiore.
Affrontare un percorso di fertilità può essere profondamente logorante, non solo fisicamente ma anche psicologicamente ed emotivamente. Si sperimenta un’alternanza continua di speranza e frustrazione, si vive la pressione del tempo, e spesso ci si sente schiacciati tra ciò che si desidera, ciò che non arriva, e ciò che gli altri si aspettano da noi. Lei e il suo compagno avete dimostrato già grande determinazione e coraggio nell’intraprendere questi tentativi. Il fatto che oggi vi sentiate incerti o persino esausti, non è un segno di debolezza, ma un segnale prezioso di consapevolezza.
La vostra riflessione su quanto significhi davvero avere un figlio oggi (in termini di impegno, responsabilità e trasformazione della propria vita) è molto matura e responsabile. In un’epoca in cui spesso la genitorialità è data per scontata, il fatto che voi stiate valutando tutto con questa profondità è qualcosa che merita rispetto.
Il tema che più la preoccupa, se capisco bene, è come gestire questa decisione con i vostri genitori. È naturale sentire il timore di deludere chi ci ama, specie quando immaginiamo che abbiano già fatto proiezioni affettive sui “nipoti futuri”. Ma qui si tratta di una scelta che riguarda intimamente la vostra coppia e la vostra qualità di vita. Non possiamo scegliere in funzione di ciò che gli altri desiderano per noi, per quanto amorevoli siano le loro intenzioni.
Le relazioni più vere e solide si costruiscono anche (e forse soprattutto) nel rispetto reciproco dei confini. Se saprete spiegare con serenità, onestà e fermezza che questa è una scelta sofferta ma condivisa, motivata da una profonda riflessione e non da superficialità o egoismo, chi vi ama davvero potrà, col tempo, comprendere e accettare. È possibile che inizialmente ci sia delusione, incomprensione o persino giudizio. Ma quelle reazioni, spesso, parlano più del bisogno emotivo dei genitori che non di un rifiuto della vostra scelta. E anche quei bisogni potranno, a loro modo, essere accolti e rispettati, senza che questo significhi rinunciare a ciò che sentite giusto per voi.
La cosa più importante ora è restare uniti come coppia, sostenervi l’un l’altro, onorare il percorso che avete fatto fin qui e dare voce al vostro sentire profondo, qualunque esso sia. Le scelte più vere sono spesso anche le più difficili da comunicare, ma portano con sé una forza silenziosa e pulita, che può insegnare molto anche a chi vi sta intorno.
Se dovesse avere bisogno di ulteriori informazioni o di intraprendere un percorso mi trova a disposizione,
Dott. Luca Vocino
Gentili dottori,
Vi scrivo, a cuore aperto, per parlarvi di una problematica che mi sta tormentando nell'ultimo periodo.
Devo fare un breve excursus per rendere tutto più chiaro. Mi sono diplomata al liceo classico, col massimo dei voti. Ero una studentessa eccellente, stimata molto dai miei docenti e studiavo ogni singola disciplina con trasporto e passione. Mi muoveva la mia curiosità, la voglia di conoscere, che mi inducevano ad approfondire ogni materia e ciò mi portava ad avere risultati eccezionali. Il mio unico problema era che, chiaramente, giunta al momento di fare la mia scelta universitaria, ero molto confusa. Da una parte c'era la certezza del mio amore per le discipline umanistiche e la lettura, passioni che mi porto dietro da quando ero una bambina, dall'altra c'era la mia curiosità verso le materie scientifiche, verso la scienza e la medicina soprattutto, che vedevo come dei pacchi regalo chiusi e che non vedevo l'ora di aprire. Raramente ho pensato, durante il liceo, di intraprendere gli studi letterari. Anzi temevo che il liceo classico non mi formasse per intraprendere percorsi scientifici, ma in ogni caso cambiavo continuamente idea: qualche volta volevo fare l'editrice, molte più volte mi esaltava l'idea di fare la farmacista, il medico, l'astrofisica. Ero molto confusa, perché effettivamente mi piaceva un po' tutto.
Alla fine optai per il test di medicina, non lo supero e, decisa a ritentarlo l'anno successivo, mi iscrivo a farmacia, che mi piaceva, ma non mi entusiasmava più per gli sbocchi lavorativi (non volevo diventare una farmacista). Così studiai per due esami, che per altro mi appassionarono molto e poi ritentai, l'anno successivo, il test. Non lo superai ancora una volta. Piansi per giorni, mi sentivo una fallita e decisi di abbandonare le materie scientifiche per cullarmi nel senso di tranquillità che le discipline umanistiche mi davano. Così mi iscrissi a lettere. Ottenni 30 e 30L a tutti gli esami. Gli studi mi appassionavano molto, ma non smettevo di pensare a quello che la mia vita sarebbe stata se avessi studiato medicina. Mi sentivo bloccata in una gabbia, come se mi fosse stato limitato un sapere a cui volevo accedere con tutte le mie forze. Lettere mi piaceva moltissimo, ma spesso non dissetava totalmente la mia sete di conoscenze maggiori e diverse rispetto alla mia comfort zone. Così a luglio affiancai lo studio di letteratura italiana 1 a quello di materie scientifiche, decisa a ritentare un'ultima buona volta il test. Questa volta lo superai, ironia del destino. E una volta superato cominciai a chiedermi: okay e ora cosa faccio? È giusto lasciare lettere per medicina? E se non fossi brava? E se non mi piacesse?
Alla fine decisi di iscrivermi a medicina e una volta presa questa scelta caddi in un baratro di pentimento, ma col tempo mi risollevai, e trovai entusiasmanti i nuovi studi.
Il mio problema è che adesso sono al quarto anno di medicina, che quasi volge al termine e mi chiedo: se avessi sbagliato tutto? Non sono mica una cima a medicina, come lo ero a lettere. E se non volessi essere medico? Se volessi passare la mia vita semplicemente rintanata nei miei libri e non volessi avere tutte quelle responsabilità che ha il medico? Se sarò un medico mediocre, uno di quelli che tutti vogliono scansare? Se avessi proseguito gli studi letterari, in cui eccellevo, forse oggi starei per terminare i miei studi magistrali e per intraprendere il dottorato.
A volte credo che se tornassi indietro non cambierei mai il corso di studi. Anzi avrei scelto dall'inizio lettere. Ma mi rendo conto che nessuno mi ha costretto nelle scelte, che all'inizio io stessa non credevo minimamente di voler fare lettere e che quando la facevo, sì mi appassionava, ma mi faceva sentire in gabbia. Ora è medicina che mi fa sentire in gabbia, quindi mi chiedo: non è forse la mia paura del futuro, il fatto che io non sia più eccellente come un tempo che mi porta ad autosabotarmi?
A volte credo sia questo, altre volte sento di stare sviluppando un totale senso di disinteresse e distacco per quello che faccio. E mi chiedo: perché lo faccio? Penso di aver gettato all'aria, ripudiato, respinto la mia passione e i miei talenti.
Non è passato un anno in cui sia stata completamente certa della mia scelta di studiare medicina.
È vero che, sicuramente, necessito di andare in terapia, ma nel frattempo mi piacerebbe ascoltare voi.
Vi ringrazio e vi auguro una buona giornata.
Buongiorno gentile Utente, intanto la ringrazio per la fiducia e la profondità con cui ha voluto condividere il suo vissuto. Le sue parole parlano di un’anima lucida, sensibile e molto appassionata, e di un conflitto interiore che non è affatto banale, né superficiale. Quello che racconta non è solo un “dubbio universitario” o una crisi di percorso, ma qualcosa che tocca il nucleo più profondo della sua identità: chi sono? Cosa voglio davvero fare della mia vita? Cosa mi definisce, oggi?
Questa domanda, che la abita da anni e che ha cambiato forma più volte, ha a che fare con due dimensioni fondamentali dell’esistenza: la ricerca del senso e il riconoscimento del proprio valore. Lei ha una mente eclettica, appassionata del sapere in molteplici forme, capace di passare con naturalezza dalla letteratura alla scienza, dalla filosofia alla biologia. Questo è un dono prezioso, ma spesso chi ha una mente così aperta rischia di percepirsi come instabile, “confusa”, quando in realtà è semplicemente troppo profonda per accontentarsi di una sola etichetta.
Il suo dubbio non nasce da un fallimento, ma da una straordinaria capacità di interrogarsi e da un livello di consapevolezza che poche persone possiedono alla sua età. Il fatto che oggi non si senta più “eccellente” come un tempo, e che viva questa discrepanza tra il rendimento straordinario in lettere e quello che lei percepisce come più modesto in medicina, potrebbe raccontare una cosa molto più umana e concreta: lei non è cambiata in peggio, si sta solo confrontando con un terreno nuovo, diverso, più difficile da dominare sul piano tecnico ma non per questo meno nobile o meno significativo.
Essere “una cima” non significa necessariamente sentirsi nel posto giusto. E sentirsi nel posto giusto non implica sempre avere il massimo dei voti. Forse la questione non è nemmeno cosa ha scelto, ma perché e per chi lo ha fatto. È possibile che oggi viva una forma di lutto non elaborato verso quella parte di sé che brillava e si sentiva “vista”, riconosciuta, potente nelle sue capacità. Ma medicina non le ha tolto questo potere. Forse le ha chiesto di declinarlo in un modo diverso, più lento, più faticoso, meno immediatamente gratificante. E forse, oggi, una parte di lei è stanca di questo sforzo e cerca un rifugio nella nostalgia di una versione di sé più leggera, più fluida.
Vorrei dirle che la fatica, il dubbio, e persino il disinteresse momentaneo non sono segni di una scelta sbagliata. Sono spesso, invece, segnali di una crisi evolutiva, una di quelle soglie importanti della vita in cui siamo chiamati a rinegoziare le motivazioni che ci muovono, a integrare le parti di noi che sembrano essere in opposizione. Lei non è solo “una che ama leggere” o “una che vuole curare”. Lei è entrambe le cose. Forse oggi il suo malessere viene proprio da questa polarizzazione: da un lato l’intellettuale brillante, dall’altro la futura dottoressa che si sente “mediocre”. Ma la verità è che lei ha risorse per essere molto di più di una dicotomia.
Ha perfettamente ragione: uno spazio terapeutico potrebbe aiutarla a sciogliere questi nodi in modo più profondo. Intanto, le suggerirei di dare voce anche a quella parte di sé che sa perché è arrivata fin qui. Non per puro calcolo o ripiego, ma perché dentro di lei vive ancora quella bambina che voleva aprire pacchi regalo pieni di conoscenza, che voleva sapere, capire, toccare la realtà anche attraverso il corpo, la materia, la sofferenza e la cura.
Non c’è nulla di sbagliato nel desiderare una vita in cui ci si senta più leggeri. Ma non c’è nemmeno nulla di anomalo nel desiderare profondamente e insieme più di una cosa. La chiave forse non sta nello scegliere una metà e rinunciare all’altra, ma nel cercare modi nuovi per integrare la sua natura complessa, curiosa, profonda, che merita tutta la libertà di essere ciò che è.
Se dovesse avere bisogno di ulteriori informazioni o di intraprendere un percorso mi trova a disposizione,
Dott. Luca Vocino
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