Buongiorno, mi chiamo Romina, ho 45 anni, ho fatto primo intervento a 30 anni ernia discale, il seco
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Buongiorno, mi chiamo Romina, ho 45 anni, ho fatto primo intervento a 30 anni ernia discale, il secondo maggio 2016; ho ripetuto una risonanza a ottobre 2018, e sono messa malissimo,; al primo intervento già mi proposero i distanziatori. . vorrei un consiglio
Non è facile dare una risposta alla sua domanda solo sulla base dei dati che ha riportato. Occorre valutare il quadro clinico e neurologico e l'esito della RMN. Le consiglierei una valutazione specialistica da un chirurgo vertebrale e da un esperto in medicina del dolore.
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Buonasera a lei signora, dovrei valutare per bene le immagini con le radiografie dinamiche del tratto lombare. Mi permetto di valutare con molta attenzione i distanziatori che attualmente sono controversi. Bisogna valutare il tipo di sintomo che ha, per quanti giorni al mese si presenta e se ci sono interessamenti degli arti inferiori. Rimango a disposizione e Le porgo Distinti saluti
La procedura corretta è valutare la sua storia clinica le immagini radiologiche precedenti i passati interventi chirurgici il suo attuale stato clinico e la documentazione radiologica recente
Il termine “distanziatori” non esiste in chirurgia spinale.
Chi lo usa, nei confronti di un paziente, lo fa impropriamente.
Esistono varie tecniche e dispositivi impiantabili che “distanziano” le vertebre, agendo con meccanismi diversi, volti a fondere tra loro gli elementi ossei, oppure a distanziarli, oppure a ripristinare o vicariare una funzione sostituendo una parte della colonna vertebrale.
Quello che oramai sembra condiviso da molti è l’inutilità della maggior parte dei dispositivi interspinosi (che rappresentano una delle categorie di dispositivi che possono essere inseriti tra due vertebre) che, proprio per questo, vengono spesso definiti distanziatori quasi (e non senza ragione) in senso dispregiativo.
Nei casi come il suo, in occasione di una seconda revisione di uno spazio operato (ovvero al 3° eventuale intervento), è del tutto corretto considerare una fusione vertebrale che viene realizzata, tra il resto, con l’utilizzo di dispositivi intervertebrali denominati “gabbiette” (“cage” in inglese).
Il problema però è valutare se l’intervento di revisione è correttamente indicato (ovvero se c’è un buon motivo per farlo), dal momento che, a volte, è proprio da un errore nella interpretazione del quadro (e quindi della scelta di cosa fare e dove farlo) che può derivare una inefficacia della terapia.
Infatti alle volte si vedono pazienti operati per “ernia del disco” e successivamente operati nuovamente allo stesso livello (o a livelli adiacenti), fino ad arrivare a procedure di fusione vertebrale (con i “distanziatori” o senza) che continuano ad avere lo stesso dolore di prima (al quale si aggiungono anche i disturbi conseguenti alle procedure chirurgiche nel frattempo effettuate) e che, magari, fin dall’inizio manifestavano un quadro di dolore meccanico pelvico (la cosiddetta sacroieopatia o sindrome sacroiliaca).
Oltre agli aspetti morfologici o morfodinamici (ovvero quello che si vede guardando gli esami d’immagine come la RMN o le radiografie) è sempre il quadro clinico (che il chirurgo spinale rileva interrogando il paziente e visitandolo) che deve guidare nella scelta terapeutica.
Chi lo usa, nei confronti di un paziente, lo fa impropriamente.
Esistono varie tecniche e dispositivi impiantabili che “distanziano” le vertebre, agendo con meccanismi diversi, volti a fondere tra loro gli elementi ossei, oppure a distanziarli, oppure a ripristinare o vicariare una funzione sostituendo una parte della colonna vertebrale.
Quello che oramai sembra condiviso da molti è l’inutilità della maggior parte dei dispositivi interspinosi (che rappresentano una delle categorie di dispositivi che possono essere inseriti tra due vertebre) che, proprio per questo, vengono spesso definiti distanziatori quasi (e non senza ragione) in senso dispregiativo.
Nei casi come il suo, in occasione di una seconda revisione di uno spazio operato (ovvero al 3° eventuale intervento), è del tutto corretto considerare una fusione vertebrale che viene realizzata, tra il resto, con l’utilizzo di dispositivi intervertebrali denominati “gabbiette” (“cage” in inglese).
Il problema però è valutare se l’intervento di revisione è correttamente indicato (ovvero se c’è un buon motivo per farlo), dal momento che, a volte, è proprio da un errore nella interpretazione del quadro (e quindi della scelta di cosa fare e dove farlo) che può derivare una inefficacia della terapia.
Infatti alle volte si vedono pazienti operati per “ernia del disco” e successivamente operati nuovamente allo stesso livello (o a livelli adiacenti), fino ad arrivare a procedure di fusione vertebrale (con i “distanziatori” o senza) che continuano ad avere lo stesso dolore di prima (al quale si aggiungono anche i disturbi conseguenti alle procedure chirurgiche nel frattempo effettuate) e che, magari, fin dall’inizio manifestavano un quadro di dolore meccanico pelvico (la cosiddetta sacroieopatia o sindrome sacroiliaca).
Oltre agli aspetti morfologici o morfodinamici (ovvero quello che si vede guardando gli esami d’immagine come la RMN o le radiografie) è sempre il quadro clinico (che il chirurgo spinale rileva interrogando il paziente e visitandolo) che deve guidare nella scelta terapeutica.
Buonasera. penso che debba entrare nell'ordine di idee di un terzo intervento, che probabilmente prevederebbe l'impianto di un dispositivo interspinoso di ultima generazione, cosiddetto 'per fusione'. Allo stesso modo è da prevedere una buona terapia antalgico-riabilitativa nel postoperatorio.
Cordialità. Claudio IRACE
Cordialità. Claudio IRACE
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