I disturbi del comportamento e della sfera emotiva

Esperto Cinzia PaganiPsicologia, Psichiatria, Psicologia • 20 dicembre 2016 • Commenti:

I “comportamenti problema” in ambito scolastico

L’intervento educativo per l’alunno con bisogni speciali si divide spesso in due parti fondamen­tali: la prima è rivolta agli obiettivi positivi (che possono essere numerosissimi) come aumentare i tempi di attenzione, risolvere problemi aritmetici, comprendere il significato di un testo, essere più collaborativo con i compagni. Questi sono tutti obiettivi che mirano a insegnare all’alunno a fare qualcosa che non è in grado di fare, o che fa ma in modo non adeguato.

La seconda parte di un intervento didattico-educativo speciale è costituita da obiettivi negativi che si riferiscono ad azioni che il bambino deve imparare a non compiere. Questa è sicuramente la parte più difficile di tutta la programmazione educativa e quella in cui è più facile commettere errori (tuttavia fortunatamente non tutti gli alunni ne hanno bisogno).

Quando si è costretti a intervenire sui cosiddetti comportamenti problematici - che per vari motivi, creano problemi e difficoltà all’alunno stesso e alla relazione tra lui e il suo ambiente - lo sperimentatore o l’insegnante deve programmare un intervento per eliminarli o sostituirli, che può assumere le forme più diverse e strane, anche se ne esistono di tipiche e ricorrenti. Alla base della definizione di comportamento problema c’è un vissuto di disagio, preoccupazione, difficoltà o paura da parte dell’educatore o del genitore, dovuto a qualcosa che fa l’alunno. Quest’ultimo emette dei comportamenti strani, diversi da quelli che ci aspetteremmo, comportamenti che inducono disagio e che possono essere:

  • atti autolesionistici, che provocano danni e lesioni al soggetto;

  • stereotipie, cioè assumere ripetitivamente, per lunghi periodi di tempo, dei comportamenti strani (come agitare le mani, dondolarsi ritmicamente, ciondolare il capo, girare su se stessi)

  • reazioni emozionali eccessive come fobie, paure, ansie, attacchi di collera.

A causa dell’infinita tipologia dei comportamenti problema, prima di iniziare un intervento educativo sono necessarie due operazioni che riguardano la chiarificazione oggettiva della situazione comportamentale del soggetto e la valutazione della reale problematicità dei comportamenti ritenuti “strani”. Tutte le persone che, a vario titolo, interagiscono con una certa regolarità con il soggetto (insegnanti, educatori, familiari, terapisti, ecc.) dovrebbero collaborare nella stesura della descrizione operazionale dei comportamenti problema.

Il concetto di definizione operazionale è stato sviluppato all’interno del movimento dell’operazionalismo, che sottolinea la necessità di usare, in ambito scientifico, solo termini legati ad operazioni osservabili, che garantiscano, quindi, la riproducibilità del fenomeno (D’Orico e Boca, 1995).

Possiamo, per esempio, decidere di osservare l’aggressività di un soggetto, ma il termine aggressività è troppo generico per una buona osservazione sistematica, poiché un bambino può essere aggressivo in tanti modi: può rispondere male alla maestra oppure picchiare un compagno. Per sopperire a questo problema è necessario scomporre il comportamento in alcune categorie più specifiche e meglio misurabili.

Da questo interessante confronto, nasce una collettiva chiarificazione dell’effettiva e attuale realtà comportamentale del soggetto ed emerge un elenco di compor­tamenti ritenuti problematici (che saranno obiettivi del successivo intervento, espressi e descritti chiaramente) in modo condiviso ed inequivocabile.

Non esistono descrizioni giuste o sbagliate, ma solo descrizioni utili in una particolare situazione (Meazzini, 1978).             

Attenzione e apprendimento scolastico

Quando si parla di comportamenti problema in riferimento a bambini in ambito scolastico, generalmente emerge dalle parole degli insegnanti che tali difficoltà sono strettamente interconnesse con una incapacità del bambino di mantenere l’attenzione, spesso anche in situazioni extrascolastiche.

L’attenzione è un fenomeno strettamente interconnesso con la comprensione, per cui è impossibile riuscire a prestare attenzione a un messaggio se non si riesce a comprenderlo. Questo collegamento si verifica soprattutto a scuola: prima di chiedersi i motivi per cui certi bambini non stanno attenti, è necessario domandarsi se la spiegazione è stata sufficientemente comprensi­bile per tutti (Marzocchi, Molin e Poli, 2000).

Un altro importante fattore che agisce in sinergia con l’attenzione è la motivazione. Essa è il prodotto di processi cognitivi complessi che non tutti gli alunni riescono a gestire in modo efficace; è l’applicazione di una serie di strategie determinate dalla rappresentazione mentale dello scopo, della situazione presente e dai vantaggi ottenibili dal raggiungimento di quello scopo. La motiva­zione prevede sempre un’interazione tra il soggetto e l’ambiente circostante (Caprara, 1994).

Ciò che è importante sottolineare è che la motivazione e la compren­sione sono dei potenti modulatori dell’attenzione, in particolare di quella mantenu­ta: non esistono dei tempi fissi e costanti di span attentivo che variano con l’età, ma l’attenzione dipende molto spesso dalla comprensione di ciò che dice l’interlocutore e da come quest’ultimo sia riuscito a innalzare il livello di motivazione.

Bambini con difficoltà di attenzione e di apprendimento

I sintomi relativi alla disattenzione si riscontrano soprattutto in quei bambini che, rispetto ai loro coetanei, presentano un’evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo sufficiente a completarlo in modo ordinato. Quando sono in classe sembra che “sognino ad occhi aperti” e spesso passano da un’attività all’altra senza averne completata nessuna. Sono ragazzini che si guardano attorno continuamente, sia durante lo svolgimento dei compiti, che davanti alla televisione.

Essi manifestano disattenzione soprattutto quando devono affrontare compiti lunghi o noiosi, quando devono leggere un testo senza figure o quando devono ascoltare le monotone spiegazioni dell’insegnante. Le loro difficoltà possono essere decisamente mitigate con brevi e frequenti pause e dando loro la possibilità di cambiare, di tanto in tanto, il compito da eseguire. È necessario sapere che i bambini con problemi di attenzione non hanno difficoltà a capire l’importanza delle informazioni che ascoltano o leggono: sono capaci di decidere quali sono le informazioni importanti e quali quelle irrilevanti (non hanno cioè problemi di attenzione selettiva); tuttavia non sempre resistono alla tentazione di concentrarsi sulle informazioni più affascinanti ma assoluta­mente inutili per lo svolgimento del compito. Per questi motivi essi dopo un certo periodo di tempo confondono le informazioni importanti con quelle superflue (Marzocchi, Cornoldi e De Meo, ms. non pubblicato).

Questi bambini manifestano un’estrema variabilità di prestazioni: a volte eseguono perfettamente i compiti senza eccessivi richiami, altre volte non riescono a concludere alcun lavoro. Già negli anni Ottanta, Virginia Douglas (1983) sottolineava che i segnali della disattenzione sono minimi o addirittura assenti quando il bambino riceve dei frequenti rinforzi per quello che sta facendo o se si trova sotto stretta sorveglianza, in un rapporto di uno a uno.

Successivamente Barkley (1997), sostenne che esistono sei fattori con i quali è possibile spiegare la variabi­lità del comportamento dei bambini con disattenzione:

1. il momento della giornata o la fatica accumulata durante il giorno;

2. l’incremento della complessità del compito e la richiesta di applicazione di strategie più sofisticate;

3. l’aumento dei limiti e dei vincoli che l’ambiente impone al comportamento del bambino;

4. il livello di stimolazione all’interno del setting in cui opera il soggetto (un ambiente mediamente stimolante è quello che riesce a mantenere buoni livelli di attenzione);

5. una serie di immediate contingenze (rinforzi positivi o negativi) associate al compito;

6. la presenza di un supervisore adulto durante l’esecuzione dell’attività.

L’attenzione riveste quindi un ruolo fondamentale nell’apprendimento scola­stico, in quanto chi non presta attenzione non riesce ad acquisire le abilità e le conoscenze necessarie. In effetti, molti alunni con difficoltà attentive manifestano anche un ritardo di apprendimento: numerose ricerche in questo settore affermano che circa il 40% dei soggetti con disattenzione presenta anche difficoltà di appren­dimento (DuPaul e Stoner, 1992), ovvero ha prestazioni scolastiche inferiori alla media, pur avendo un buon livello intellettivo.

A questo punto ci si potrebbe chiedere quale sia la relazione tra le difficoltà di apprendimento e quelle di attenzione.

Attualmente, si ritiene che le possibili relazioni causali siano tre:

  • Le difficoltà di apprendimento determinano disattenzione e impulsività (a volte iperattività), proprio perché certi alunni che non riescono a ottenere buoni risultati scolastici, pur essendo intelligenti come gli altri, sviluppano problemi moti­vazionali e di immagine di sé che li inducono a evitare i     compiti in cui il fallimento è prevedibile: per tali ragioni diventano disattenti e frettolosi nelle loro attività;

  • Le difficoltà di attenzione determinano ritardi di apprendimento in quanto la scarsa focalizzazione dell’attenzione e l’impulsività inducono facilmente l’alun­no in errore;

  • Le difficoltà attentive e di apprendimento possono coesistere a causa di un generalizzato problema neuropsicologico che investe le aree linguistiche (solitamente nell’emisfero sinistro) e le aree anteriori del cervello. In questo caso l’alunno risulta doppiamente svantaggiato e le presta­zioni scolastiche sono inferiori alla media.

Nonostante questo, alcuni studi (O’Neill e Douglas, 1991) sostengono che anche se apparentemente i bambini con difficoltà attentive non hanno adeguate prestazioni scolastiche (perché non seguono la lezione dell’insegnante, quindi perdono le normali occasioni di apprendimento), in realtà il tempo di attenzione non è in grado di spiegare (in termini statistici) le scarse prestazioni scolastiche degli alunni disattenti, quindi i risultati scolastici peggiori dipendono da come utilizzano le loro potenzialità cognitive. I bambini disattenti sono intelligenti e hanno una memoria come gli altri, ma non riescono a mettere in pratica ciò che saprebbero fare; a volte conoscono delle strategie di memorizzazione efficaci ma non le applicano (Cornoldi et al., 1999), forse perché la loro applicazione richiede sforzo, impegno, costanza... che non sono molto amati dai bambini con problemi attentivi. In realtà essi non riescono a fare di meglio, non sono in grado di autoregolare lo sforzo e il loro stile impulsivo li induce a concludere prematura­mente i compiti, anche prima di averli effettivamente completati.

DDAI: note teoriche

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è una recente etichetta diagnostica utilizzata per descrivere una popolazione eterogenea e vasta di bambini che presentano una serie di sintomi, le cui manifestazioni più evidenti riguardano la difficoltà a mantenere l’attenzione e a controllare l’impulsività e il movimento (possono essere presenti nel bambino entrambi questi aspetti o solo uno di essi) (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001).

Le manifestazioni comportamentali relative alla disattenzione si riscontrano in bambini che, rispetto ai propri coetanei, presentano una evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo prolungato. Tali soggetti faticano a seguire le consegne fornite e risultano sbadati e imprecisi nello svolgimento di qualsiasi attività. Inoltre non riescono a rimanere concentrati, sono facilmente distratti da compagni o oggetti e raramente riescono a completare efficacemente un compito.

L’iperattività si manifesta come la necessità del bambino di essere sempre in movimento, di passare rapidamente da un’attività all’altra e nella difficoltà a rimanere seduto e a dedicarsi a compiti più tranquilli.

Il comportamento iperattivo è spesso associato all’impulsività che si esprime nella difficoltà ad attendere il proprio turno e a rispettare le regole sociali. Vi è inoltre la tendenza a rispondere frettolosamente a domande che non sono state completate e a essere frequentemente invadente sia coi coetanei sia con adulti (Convegno Regionale AIFA ONLUS, 2004).

Un’esauriente descrizione del disturbo è contenuta nel DSM IV (APA, 1995). Secondo tale strumento diagnostico, per poter porre una diagnosi di DDAI, un bambino deve presentare almeno 6 sintomi che soddisfino il criterio per la disattenzione o per l’iperattività o per entrambi per un minimo di sei mesi e in almeno due contesti di vita (ad es. casa e scuola); inoltre è necessario che tali sintomi siano presenti prima dei sette anni di età e che compromettano il funzionamento scolastico e sociale.

Esistono tre tipologie di DDAI:

  • se un soggetto presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di disattenzione, viene fatta una diagnosi di DDAI/sottotipo disattento;     

  • se presenta esclusivamente 6 dei nove sintomi di iperattività/impulsività, allora viene fatta una diagnosi di DDAI/ sottotipo iperattivo-impulsivo;

  • se il bambino presenta entrambe le problematiche, allora si pone la diagnosi di DDAI/ sottotipo combinato.     

I sintomi cardine di tale disturbo causano di frequente nei bambini problematiche piuttosto gravi all’interno di vari contesti di vita e determinano pertanto delle disfunzioni (ad esempio a livello relazionale e in ambito scolastico).

Spesso i bambini con deficit di attenzione e iperattività hanno prestazioni scolastiche inferiori ai loro coetanei pur avendo le stesse abilità intellettive. La spiegazione di questo fenomeno è da ricercare nelle difficoltà attentive e di autoregolazione cognitiva, nella maggior quantità di risposte impulsive e nel comportamento iperattivo all’interno della classe che non consente al soggetto di apprendere gli argomenti di volta in volta spiegati (Marzocchi, 2000).


 

I problemi di controllo comportamentale si ripercuotono anche sulle relazioni interpersonali. Non sorprende che i bambini con DDAI vengano spesso rifiutati dai compagni e siano meno popolari (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001). Gli insegnanti li valutano negativamente non solo dal punto di vista del profitto, ma soprattutto sotto l’aspetto comportamentale e del rispetto delle regole sociali. Sia in contesti strutturati che nel gioco si osserva un’alta frequenza di comportamenti negativi verbali e non verbali, minore interazione coi compagni, bassi livelli di espressione affettiva e maggior ritiro sociale seguito da aggressività. I bambini iperattivi vengono descritti dai loro compagni come non cooperativi in situazioni di gruppo, intrusivi e in alcuni casi aggressivi e provocatori, e per questo spesso non beneficiano delle opportunità di socializzazione.

Tutto ciò ha chiare implicazioni sul livello di autostima del bambino, il quale, percependosi come inefficace sia a livello scolastico che a livello amicale, mostra spesso una scarsa considerazione di sé stesso (Marzocchi, Vio, Offredi, 1999).

Le diagnosi di DDAI sono in costante aumento presso i centri specializzati, ma non a causa di un reale aumento dei casi quanto piuttosto per un più chiaro riconoscimento dei sintomi da parte dei clinici (Convegno Regionale Sicilia AIFA ONLUS, 2004).

Il DSM IV indica una percentuale di bambini portatori di questo disturbo che varia dal 3% al 5% nella popolazione in età scolare, con una frequenza 5 volte maggiore nei maschi rispetto alle femmine (APA, 1995). L’ ICD-10 indica, invece, una percentuale che interessa il 2% della popolazione infantile.

Circa le cause di questo disturbo si riscontrano in letteratura diverse teorie. I sostenitori dell’ipotesi biologica indicano che nei soggetti portatori di DDAI è possibile riscontrare una minore estensione a carico della corteccia prefrontale destra e dei nuclei della base. Tali aree cerebrali vestono una particolare importanza nei processi che regolano l’attenzione: la corteccia prefrontale destra, ad esempio, è implicata nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé nel tempo (Marzocchi, 1999). Secondo altri studiosi, l’impulsività potrebbe essere correlata non tanto ad una minore estensione della corteccia prefrontale, ma piuttosto a un ipofunzionamento delle proiezioni catecolaminergiche che partono, appunto, dalle aree prefrontali (Terzo Convegno Annuale AIDAI, 2000).

Per quanto riguarda le ipotesi psico-sociali, Sandberg (1996) in una rassegna ha descritto le tre teorie maggiormente accreditate che tentano di spiegare il disturbo da deficit di attenzione/iperattività da un punto di vista psicologico:

  • Prima Ipotesi: Eccessiva sensibilità ai rinforzi che si esprime nella difficoltà ad attendere una gratificazione. I bambini con DDAI preferiscono l’immediatezza piuttosto che la consistenza di un premio e spesso per loro è preferibile dare una qualsiasi risposta piuttosto che dover aspettare.     

  • Seconda Ipotesi: Un Deficit motivazionale potrebbe     essere la spiegazione delle difficoltà attentive. I ragazzi con DDAI hanno enormi difficoltà a prestare attenzione a quelle     attività che non suscitano in loro alcun interesse.

  • Terza Ipotesi: Deficit nella regolazione degli stati fisiologici che produrrebbe il fallimento nell’elaborazione cognitiva degli stimoli, nella decisione e nell’organizzazione di risposte comportamentali.

A livello evolutivo, l’esordio del disturbo appare piuttosto precoce e nonostante i sintomi cardine del DDAI tendano ad abbassarsi con la crescita del bambino, essi vengono sostituiti da altri segni di disagio come ansia e depressione (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001). Spesso i genitori riferiscono che i bambini con DDAI sono stati difficili sin dalla nascita: molto irritabili, inclini a un pianto inconsolabile, con difficoltà di sonno e alimentazione. Con l’ingresso nelle scuole elementari le difficoltà aumentano a causa della presenza di una serie di regole che devono essere rispettate e di compiti che devono essere eseguiti. Anche i problemi interpersonali, spesso già presenti durante l’età prescolare, persistono e tendono ad aumentare di gravità; questo probabilmente perché le interazioni coi compagni richiedono, con il progredire dell’età, abilità sociali sempre maggiori. Con la crescita, l’iperattività tende a diminuire in termini di frequenza e di intensità e può venire parzialmente sostituita da un’agitazione interiorizzata che si manifesta con insofferenza e impazienza. Durante l’adolescenza (e oltre) si osserva mediamente una lieve attenuazione della sintomatologia ma permangono - in modo addirittura aggravato - altri problemi associati, come depressione e ansia. In età adulta tali soggetti mostrano la tendenza a cambiare molto di frequente lavoro e attività di tempo libero e difficilmente riescono a mantenere relazioni di coppia stabili e durature (Gallucci, 2000).

Comorbilità e Diagnosi Differenziale

Il processo di valutazione che porta ad una diagnosi di disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/impulsività si presenta come difficoltoso e pieno di insidie. Infatti, gli stessi sintomi cardine del DDAI (disattenzione, impulsività, iperattività) possono essere presenti, a un diverso grado di intensità, in quadri clinici che si associano al DDAI in condizioni di comorbilità, oppure possono verificarsi in disturbi che simulano il DDAI, entrando dunque in diagnosi differenziale con esso (Masi, 2006).

Ad esempio, i disturbi del comportamento possono essere parte integrante del quadro di DDAI, ma allo stesso tempo possono essere presenti anche in sintomatologie tipiche di altri disturbi come il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) o il Disturbo della Condotta (DC); o ancora il DDAI può essere diagnosticato in comorbilità con altri disturbi come il DOP o il DC.

La difficoltà diagnostica è data dal fatto che le stesse patologie che più di frequente si associano al DDAI sono anche quelle che solitamente entrano in diagnosi differenziale con esso.

Tali aspetti riflettono l’incertezza dei confini della sindrome DDAI, per cui è ancora legittimo chiedersi che cosa può considerarsi parte integrante di questo disturbo e cosa non lo è. Infatti, se i caratteri nucleari del DDAI, disattenzione impulsività e iperattività, sono sufficientemente definiti, altri aspetti come la difficoltà nel controllo del comportamento, i disagi relazionali, la labilità emotiva, la compromissione del funzionamento scolastico, si presentano come tipici di innumerevoli disturbi. E’ pertanto lecito chiedersi sino a che punto tali manifestazioni rientrino nel quadro sintomatologico del disturbo da deficit di attenzione e iperattività/ impulsività, oppure siano fattori associati in comorbilità o ancora segni di un disturbo indipendente che simula il DDAI.

Nel processo diagnostico, primo compito del clinico è quello di accertarsi che le problematiche del soggetto appartengano ad una sfera realmente patologica. I segni del DDAI possono essere considerati come delle dimensioni in un continuum tra normalità e patologia; è necessario individuare una soglia di rilevanza clinica che si associa ad una compromissione funzionale ad esempio sul piano scolastico e sociale (Vio, 2000).

In alcuni casi infatti può essere complesso discriminare tra eccessiva vivacità del bambino e una vera e propria forma di DDAI.

Come è possibile differenziare queste condizioni? Le forme psicopatologiche di DDAI si distinguono da condizioni di normalità per la precocità dell’esordio e per la sua pervasività in molte aree della vita sociale del bambino. Inoltre si riscontra in tale disturbo l’incapacità del soggetto di finalizzare l’iperattività verso scopi concreti. Da questi fattori dipende un’elevata compromissione del funzionamento scolastico, familiare e sociale.

Nel caso in cui sia accertata la rilevanza patologica dei sintomi presenti nel soggetto, lo psicologo dovrà essere estremamente abile per non cadere nell’errore di sottovalutare quadri sindromici spesso associati al DDAI e dovrà accertarsi che il disagio del bambino dipenda realmente dal disturbo da deficit di attenzione e iperattività/impulsività piuttosto che da altre patologie che ne mimano i principali sintomi.

DDAI e Disturbo oppositivo provocatorio

La caratteristica principale del Disturbo Oppositivo Provocatorio è una modalità ricorrente di comportamento negativistico, provocatorio, disobbediente ed ostile nei confronti di figure dotate di autorità (come genitori e insegnanti) che persiste per almeno sei mesi (APA, 1995). Tale patologia, secondo i criteri diagnostici del DSM IV, è caratterizzata da frequente perdita del controllo, litigi con gli adulti, opposizione attiva o rifiuto di rispettare richieste e regole imposte da figure di autorità, azioni finalizzate a infastidire altri individui, intolleranza verso altre persone, collera, atteggiamento vendicativo. Inoltre, i bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio accusano spesso gli altri per i propri sbagli o per il proprio comportamento deplorevole. Tali segni comportano una significativa compromissione del funzionamento sociale, familiare e scolastico.

Secondo la letteratura, la percentuale di casi in cui DDAI e DOP si presentano in una condizione di comorbilità è molto elevata: si parla del 50-60% (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001). Per tale ragione molti studiosi hanno mosso la critica secondo cui la distinzione tra le due patologie è troppo fragile, per cui si tratterebbe in realtà di aver dato due nomi diversi per un unico disturbo. Altri sostengono che ad essere falsa è la condizione di comorbilità, nel senso che buona parte dei soggetti a cui viene diagnosticato DDAI in associazione col Disturbo Oppositivo Provocatorio sarebbero in verità interessati esclusivamente da una forma di Disturbo da deficit di attenzione e iperattività/ impulsività particolarmente grave.

Saranno le interviste semistrutturate basate sul DSM IV rivolte a genitori e insegnanti, insieme all’osservazione del comportamento del bambino, a specificare se si è in presenza di una sola delle due patologie o se ci si trova davanti ad una condizione di comorbiltà (Masi, 2005).

In effetti è possibile differenziare i due disturbi attraverso un’attenta descrizione della sintomatologia del bambino (che può essere condotta da genitori, insegnanti e altre figure significative come nonni o baby sitter): in presenza di DDAI puro le manifestazioni oppositive non raggiungono quel grado di intensità e sistematicità che invece raggiungono nel DOP; per contro, in presenza del disturbo oppositivo provocatorio puro, non si hanno segni di comportamento dirompente e non viene raggiunta una compromissione delle funzioni attentive pari al DDAI.

DDAI e Disturbo della Condotta

La caratteristica fondamentale del Disturbo della Condotta è una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali delle altre persone oppure le regole sociali condivise nel mondo adulto vengono sistematicamente violati (DSM IV, 1994). Questi comportamenti si inseriscono in quattro gruppi fondamentali:

  • condotta aggressiva che non causa danni fisici a persone o animali;

  • condotta non aggressiva che causa perdita o danneggiamento di una proprietà;

  • frode o furto;

  • gravi violazioni di regole.

Tre o più comportamenti di questo tipo devono essere stati presenti durante i 12 mesi precedenti. Tali condotte devono essere presenti in più ambiti (come quello familiare e scolastico) e determinarne una compromissione funzionale.

Il Disturbo della Condotta si presenta in comorbilità con in Disturbo da deficit di attenzione e iperattività/impulsività nel 20-30% dei casi (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001). In questa situazione dunque vengono soddisfatti i criteri formulati dal DSM IV per entrambe le diagnosi. Purtroppo, come viene indicato in letteratura (Masi, 2005), l’associazione DDAI e DC rappresenta un fattore di forte rischio evolutivo e richiede pertanto interventi terapeutici tempestivi da più fronti: educativo, psicologico e farmacologico. Infatti, l’associazione in comorbilità di tali due quadri sindromici è un forte predittore per il Disturbo Antisociale di Personalità: se 1/3 dei bambini con DC evolvono verso un Disturbo antisociale, sembra che i soggetti con DDAI in comorbilità con il DC rappresentino un sottogruppo a rischio ancora più elevato. Al contrario, il rischio di Disturbo Antisociale è molto inferiore se non praticamente assente nei soggetti con Disturbo da deficit di attenzione iperattività/ impulsività puri.

Per compiere invece una diagnosi differenziale tra l’uno o l’altro disturbo, è necessario indagare, attraverso un’attenta anamnesi e descrizione dei sintomi, fattori eziologici, familiarità con alcuni disturbi, evoluzione. Infatti tali dimensioni appaiono differenti nelle due sindromi.

Ad esempio, la familiarità con il disturbo della condotta o il disturbo antisociale di personalità si riscontra molto spesso in casi di DC, mentre è assente in casi di DDAI.

Sembrano essere differenti alcuni eventi critici vissuti dai bambini portatori di queste due diverse patologie: ad esempio i casi di trascuratezza, separazione o abbandoni si riscontrano frequentemente nella storia di soggetti con DC, mentre sono rari in soggetti con DDAI.

I sintomi cognitivi di disattenzione sono molto alti in soggetti con DDAI, mentre sono quasi assenti nei soggetti con DC.

Una diagnosi differenziale corretta, ottenuta tramite un’ attenta anamnesi e colloqui semistrutturati, è estremamente importante anche per definire il trattamento e la prognosi di questi soggetti. Infatti, al contrario di quanto accade per il DC, il DDAI risponde molto bene a un trattamento combinato comportamentale e farmacologico, e dunque il clinico potrà prendere in considerazione un invio a un neuropsichiatria per l’eventuale somministrazione di farmaci. (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001).

DDAI e Depressione

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività si presenta in condizioni di comorbilità col disturbo depressivo in una percentuale di casi che va dal 15% al 75% (Masi, 2005). L’enorme scarto tra le stime epidemiologiche sottolinea la discordanza tra i ricercatori nell’interpretare manifestazioni depressive come implicita al DDAI oppure come un disturbo depressivo associato. Secondo Masi (2005) la comorbilità coi disturbi dell’umore potrebbe rappresentare un artefatto nel senso che la diagnosi di depressione che si ottiene nei bambini con DDAI si riferirebbe a forme lievi e croniche di demoralizzazione più che a una vera e propria depressione maggiore.

E’ dunque necessario distinguere una depressione associata a DDAI dalla demoralizzazione episodica che può seguire episodi spiacevoli in cui molto spesso i soggetti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività si trovano coinvolti.

Nel caso in cui lo psicologo accerti un caso di DDAI in comorbilità con Depressione, sarà utile ipotizzare, oltre ad un intervento comportamentale, l’invio ad uno psicoterapeuta per un trattamento cognitivo che possa risolvere il quadro sintomatologico legato alla depressione stessa.

Accade a volte che DDAI e Depressione possano avere nei bambini sintomi simili come iperattività e impulsività, difficoltà di attenzione e concentrazione, sonno disturbato, aggressività. In questo caso la diagnosi differenziale viene condotta basandosi sulle descrizione dei sintomi svolta da familiari insegnanti e altri significativi e dall’osservazione diretta del bambino. Infatti, nel caso di Depressione pura, l’intensità di sintomi quali disattenzione impulsività e iperattività è molto ridotta rispetto a un caso di DDAI. Inoltre nel DDAI le manifestazioni di iperattività e impulsività appaiono come non finalizzate a differenza di quanto avviene all’interno di un quadro depressivo.

DDAI e Ansia

Circa il 25% dei bambini con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività presenta associati Disturbi d’Ansia (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001). Tale frequenza è ancora maggiore nei soggetti con DDA senza iperattività/impulsività. I bambini con comorbilità ansiosa si distinguono dai bambini con DDAI in quanto si presentano come meno impulsivi e con maggiore difficoltà di socializzazione (Masi, 2005). Molto spesso l’associazione con un disturbo d’ansia può essere un fattore secondario che insorge proprio per la presenza di DDAI: infatti alcuni bambini con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività possono sviluppare i sintomi del Disturbo dell’Umore perché vivono un senso di fallimento e di frustrazione, a causa dei numerosi insuccessi scolastici e sociali determinati dalla patologia stessa.

E’ tuttavia importante differenziare i due disturbi in quanto, presentando alcune caratteristiche in comune, potrebbero essere confuse in fase di diagnosi differenziale (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001). I bambini con problemi di ansia possono infatti manifestare problemi di concentrazione, impulsività e irrequietezza, proprio come quelli con DDAI.

I due disturbi sono però differenziabili sulla base di alcune caratteristiche. Innanzitutto i soggetti con componente ansiosa presentano una fortissima preoccupazione per il proprio futuro, elemento facilmente identificabile nel corso di un colloquio. Inoltre, se nei soggetti con DDAI si ha una forte prevalenza della patologia nei maschi, il disturbo d’ansia è più frequente nelle femmine. Un colloquio coi genitori e gli insegnanti del bambino sarà di fondamentale importanza per indagare la perdita di interessi di fronte a attività prima considerate piacevoli e l’eventuale presenza di affermazioni negative su sé stesso (Masi, 2005).

DDAI e Disturbo Bipolare

Il disturbo bipolare è dato dall’alternanza di stati di profonda depressione e stati di mania. La mania si caratterizza per irritabilità, ostilità e aggressività verbale o fisica; grandiosità (identificazione con personaggi onnipotenti, convinzione di possedere facoltà superiori, intolleranza all’autorità, percezione di essere al di sopra delle regole o della legge); atti dissociali; impulsività e iperattività finalizzate. A tali episodi possono seguire improvvisi momenti di depressione, autosvalutazione, idee di morte, idee pessimistiche sul significato della vita (Masi, 2005).

Essendovi una parziale sovrapposizione tra il quadro clinico delle due patologie, è spesso difficile differenziare un Disturbo Bipolare dal Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività e comprendere se si è in presenza di comorbilità o di diagnosi differenziale.

Il riconoscimento della comorbilità DDAI/DB è importante perché essa individua un sottogruppo di soggetti con un andamento clinico e prognostico particolarmente negativo (Masi, 2005). Confrontati con gli altri bambini DDAI, quelli con comorbilità bipolare soffrono più frequentemente di depressione maggiore e disturbi d’ansia, oltre che di una compromissione più grave del funzionamento sociale. Tali aspetti possono essere indagati dallo psicologo attraverso colloqui e interviste semistrutturate (DSM IV, 1994) mirate a genitori e insegnanti. Nel caso in cui si sospetti un caso di comorbilità, il clinico deve prendere in considerazione l’idea di inviare il proprio cliente a uno psichiatra in quanto tali soggetti vengono trattati con maggiore successo se si abbina una terapia psicoeducativa ad una terapia farmacologia che preveda stabilizzatori dell’umore e stimolanti.

In assenza di comorbilità è essenziale condurre una buona diagnosi differenziale per stabilire un inquadramento diagnostico di DDAI oppure di Disturbo Bipolare.

Distraibilità, impulsività, iperattività, labilità attentiva accomunano sia il DDAI che il Disturbo Bipolare e pertanto tali patologie possono essere confuse. Esistono però alcuni segnali che possono indirizzare lo psicologo verso una diagnosi corretta.

L’irritabilità e l’aggressività di bambini con Disturbo Bipolare è generalmente più grave rispetto al DDAI e si presenta con reazioni esplosive e violente. L’impulsività può esprimersi attraverso la ricerca di attività piacevoli ma pericolose, mentre nel DDAI è espressione di una globale perdita di inibizione. L’iperattività motoria è più finalizzata rispetto a quella caotica, pervasiva e afinalistica dei soggetti con DDAI. Inoltre nel Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività difficilmente si hanno sintomi di grandiosità e comportamenti antisociali violenti, che sono invece tipici del Disturbo Bipolare. Come nel caso di sospetto di comorbilità, anche in questo caso un’anamnesi dettagliata insieme a interviste semistrutturate (DSM IV, 1994) saranno in grado di chiarire l’etichetta diagnostica.

DDAI, Disturbi Pervasivi dello Sviluppo e Ritardo Mentale

Sintomi del tipo DDAI sono frequentemente descritti in bambini con ritardo mentale o patologie dello spettro autistico e non autistico (Marzocchi, 2000). Si ritiene che la frequenza di disturbi dell’attenzione con iperattività sia 3-4 volte superiore in soggetti con ritardo mentale, anche se una diagnosi di DDAI non dovrebbe essere fatta in soggetti con ritardo medio o grave. In questi casi infatti è difficile distinguere i disturbi comportamentali impliciti nel ritardo mentale da quelli legati alla comorbilità con DDAI.

Ma accanto alla comorbilità anche in questi casi deve essere affrontato il problema della diagnosi differenziale. Infatti, soprattutto in età prescolare il ritardo a livello cognitivo può essere velato da un comportamento iperattivo, instabilità emotiva e aggressività che possono condurre ad una erronea diagnosi di DDAI pur essendo tipici anche del ritardo mentale.

In questi casi, la ripetitività e la rigidità dei sintomi (maggiore nei soggetti con disturbo pervasivo dello sviluppo e ritardo mentale) dovrebbe condurre il clinico ad accertamenti diagnostici per indagare un possibile ritardo.

Esiste però anche il caso contrario, in cui soggetti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività ricevono una errata diagnosi di ritardo mentale. Tale errore è dovuto al fatto che spesso i bambini con DDAI raggiungono prestazioni scolastiche inferiori ai loro coetanei pur avendo le stesse abilità intellettive. Ciò dipende dai sintomi cardine del DDAI che non permettono al bambino di concentrarsi su lezioni o compiti in classe e che quindi non gli consentono di stare al passo degli altri compagni (Cornoldi, De Meo, Offredi, Vio 2001).

Barkley (1990) ha calcolato la percentuale di soggetti con DDAI che avevano prestazioni scolastiche inferiori alla norma e ha riscontrato che i bambini nordamericani con DDAI presentano un disturbo di lettura strumentale (velocità e correttezza) nel 21% dei casi, il 26% ha un deficit di ortografia e il 28% ha problemi nell’area logico-matematica. Se si tiene conto che complessivamente i disturbi di apprendimento si riscontrano nel 10% della popolazione in età scolastica, è facile desumere che i bambini con DDAI sono maggiormente a rischio di manifestare anche un disturbo dell’apprendimento.

 

Esperto

Cinzia Pagani psicologo clinico, psicoterapeuta, sessuologo Dott.ssa

Prenota una visita Vedi il profilo

Commenti: (0)