Attività Sportiva e Osso

Esperto Gianfranco PisanoReumatologia • 10 gennaio 2017 • Commenti:

Attività fisica per l’osteoporosi e l’osteopenia

Molto spesso quando si parla di prevenzione o cura dell'osteoporosi viene consigliata genericamente un'imprecisata attività fisica. Alla fine, ciò comporta che pochissime persone - tra le tante che potrebbero trarne giovamento - si dedicano a svolgere l'attività necessaria per prevenire o curare l'osteoporosi e il suo evento patologico: la frattura da fragilità.


Per arrivare tuttavia a comprendere quali sono gli esercizi che potrebbero essere utili, bisogna partire da lontano e precisamente dalla funzione del calcio nell'organismo umano e dalla sua enorme importanza per la nostra stessa vita.


Il calcio: elemento fondamentale per la contrazione muscolare

Il calcio (o meglio lo ione calcio) svolge numerose funzioni entrando all'interno delle cellule del nostro organismo, tra le quali quella (fondamentale) di innescare il fenomeno della contrazione nelle cellule muscolari (il muscolo più importante del nostro corpo è infatti il cuore: senza il calcio il cuore non batte).


Per questo motivo, la quantità di calcio presente nel sangue non può andare al di sopra o al di sotto di determinati valori: è allora che interviene il tessuto osseo. Esso infatti è il più importante deposito di calcio del nostro organismo e lo scambia in continuazione con il sangue, per impedire pericolose riduzioni della quantità necessaria a far funzionare i nostri organi, cuore in primis. In questo continuo scambio, l’osso va incontro a una ininterrotta evoluzione che prende il nome di rimodellamento - nel senso che, cedendo il calcio che lo irrobustisce - più parti microscopiche del tessuto osseo si indeboliscono e pertanto devono essere sostituite e rimodellate.

Lo stimolo a questo rimodellamento viene dato da molti fattori (tra i quali uno dei più importanti è la gravità). Ecco che entra in gioco l'attività fisica.

 

La forza di gravità

L’osso risponde alle sollecitazioni meccaniche tra le quali la più semplice è l'accelerazione di gravità, che si determina con i movimenti.
Gli stimoli meccanici – tuttavia - devono essere percepiti dal tessuto vivente, per trasformarli in processi biologici attraverso complesse interazioni biochimiche, in grado di trasmettere l'informazione dall'ambiente esterno - dove tali stimoli si originano - fino all'interno della cellula e al suo nucleo, affinché questo possa reagire adeguatamente ad essi.


Nel lontano 1997 un autore americano, il dottor Frost, formulò un'ipotesi tendente a quantizzare la reazione del tessuto osseo ad un carico dinamico - denominata Utah paradigm of skeletal physiology - indicando anche le entità del carico cui sottoporre un osso affinché questo fosse stimolato a produrne di nuovo.
Questo fu forse il primo tentativo di dare una spiegazione scientifica alla legge osservazionale indicata come The Wolff's Law, che era stata teorizzata basandosi su basi morfologiche sin dal 1860 circa. Frost individuava un'unità di misura denominata microstrain, che indicava una deformazione dell’osso pari ad un milionesimo di millimetro.


La legge di Wolff e lo Utah Paradigm

Il carico cui sottoporre l'osso affinché venissero attivati tutti quei processi fisiologici e biochimici che conducevano al suo rinnovamento e/o irrobustimento era compreso entro certi valori di microstrain. Al di sotto di tali valori non vi era alcuna influenza sul rimodellamento osseo (esso subiva al contrario un processo di depauperamento), mentre al di sopra l'osso non era più in grado di sopportare il carico e andava incontro a rottura.


Qualora le sollecitazioni meccaniche non siano presenti o siano insufficienti, non solo non si ha un rapporto neutro tra deposizione e riassorbimento della matrice ossea ma - al contrario - si verifica un effetto catabolico e distruttivo, come ampiamente dimostrato dagli studi dell'ente spaziale americano sugli astronauti (e come può facilmente confermare chiunque abbia avuto la sventura di subire una frattura trattata con apparecchio gessato - e quindi con immobilizzazione prolungata).
Per interpretare questi meccanismi di accoppiamento tra il carico meccanico e la risposta biologica è stato coniato il termine di meccanotrasduzione, che rappresenta quella sequenza di eventi che da un carico meccanico applicato ad una struttura biologica (attraverso una serie di correlazioni, macro-microscopiche e molecolari) porta a una variazione della struttura biologica stessa.


Nel 2010 gli autori Bidwell e Pavalko hanno pubblicato un lavoro che teorizza la meccanica dell'accoppiamento tra il carico cui viene sottoposto l'osso e le modificazioni da esso indotte. Le cellule che producono il nuovo osso - gli osteociti e gli osteoblasti - sono, come tutte le cellule del nostro organismo, circondate da un infinitesimale straterello liquido che è il liquido interstiziale. Questo liquido, ancorché infinitesimale, esercita comunque una pressione sulla superficie delle cellule anche in condizioni di assoluto riposo (pressione che aumenta a causa del movimento).

 

Fluid share stress ovvero la pressione del liquido interstiziale

La stimolazione fisica della membrana attiva complessi multiproteici (definiti meccanosomi – mechanosomes) mentre – contemporaneamente - si spostano i geni bersaglio in posizione utile per entrare in contatto con i meccanosomi in arrivo, portatori delle informazioni meccaniche al nucleo.

È evidente che qualora lo stimolo applicato non sia sufficiente all'attivazione dei trasduttori meccanici, nulla avviene: l’osteocita non si trasforma in osteoblasto, l’osteoblasto non depone nuova matrice collagene, la matrice ossea non si calcifica e pertanto avremo solamente la rimozione del l'osso vecchio ed indebolito ma non la sua sostituzione con il più resistente osso nuovo.

Dalla serie di eventi sopra riportati si deduce quindi l'importanza della entità del carico cui l'osso deve essere sottoposto per poter reagire in misura utile al suo rinnovamento. Carichi non sufficientemente sostenuti non sono quindi in grado di stimolare una corretta risposta, pertanto non tutti i tipi di attività fisica sono da considerare funzionali al recupero ed al mantenimento della massa ossea.

 

I periodi delle nostre ossa

Se valutiamo i cambiamenti del tessuto osseo per scandire i periodi della nostra vita, possiamo individuare alcuni cicli ben distinti gli uni dagli altri. Dalla nascita alla pubertà e poco oltre (sino ai 20 anni circa), l'osso si evolve in modo tortuoso - crescendo sia in dimensioni che in contenuto di calcio - spinto prevalentemente da fattori ormonali ma anche, in misura minore, dalla continua attività fisica tipica di queste età.

Dai 20 ai 30 anni l'osso si accresce ancora in densità, raggiungendo il cosiddetto "picco di massa ossea", che poi rimane quasi stabile fino ai 40 anni circa, con minima perdita di massa.

 

Il picco di massa ossea

Da questa età in poi i fattori catabolici - cioè riduttivi - prevalgono su quelli anabolici - di ricostruzione - e inizia un lento declino della densità dell'osso: il sostegno ormonale rallenta (prima nel sesso femminile ma anche in quello maschile), riducendo la propria influenza sui meccanismi di rimodellamento osseo.

Tra i 40-45 anni e dei 65-70 anni si gioca dunque un'importante partita per contrastare il declino (inizialmente lento ma successivamente sempre più veloce) della qualità dell'osso, sempre meno influenzato da fattori ormonali e sempre più da corretti stili di vita. Infine dai 70-75 anni in poi alcuni fattori, non direttamente correlati al tessuto osseo, facilitano ancor di più rispetto agli anni precedenti, l'espressione finale della malattia Osteoporosi, cioè l'evento fratturativo.


Seguendo questa distinzione, più pratica che scientifica, anche se basato su evidenze ampiamente accettate dalla comunità internazionale, potremmo valutare quali possano essere le attività fisiche più adatte nei periodi di maggior depauperamento della massa ossea.

Esperto

Gianfranco Pisano medico competente, medico dello sport, medico di medicina generale Dr.

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